Ha diritto al risarcimento anche il nipote non convivente con la vittima
Quante volte è capitato, a chi si occupa di casi di responsabilità civile, di sentirsi porre la fatidica domanda: in caso di morte di un soggetto, il danno non patrimoniale da lesione del “rapporto parentale” spetta esclusivamente ai soggetti inseriti nelle ormai celebri tabelle milanesi oppure anche a parenti non rientranti nel novero di quelli specificamente enucleati nelle stesse? Altrimenti detto, i prossimi congiunti meritevoli di tutela sono solo i coniugi, i genitori, i figli e i nonni della vittima primaria (questi ultimi accolti nella fatidica “lista” a far data dalla recente revisione dei criteri tabellari effettuata dall’Osservatorio della giustizia del tribunale meneghino)? Oppure si può pensare – in virtù di una interpretazione estensiva, ma francamente non tacciabile di arbitrarietà – di includere nell’alveo delle potenziali vittime “secondarie” di un evento luttuoso anche, per esempio, i nipoti di quella primaria?
Ebbene, una recentissima pronuncia della Cassazione, la nr. 29332 del 07.12.17, si è occupata (anche) di questo affermando che il rapporto sussistente tra il nipote e la vittima diretta di un danno mortale deve ricevere adeguata tutela ferma restando la regola aurea secondo cui “in caso di domanda di risarcimento del danno non patrimoniale da uccisione” sui prossimi congiunti incombe l’onere di “provare la effettività e la consistenza della relazione parentale”.
Ma vi è di più: la Cassazione ha pure ritenuto che il requisito della convivenza tra i nipoti e i nonni non debba essere considerato alla stregua di una pre-condizione imprescindibile ai fini della ristorabilità del danno. Insomma, al fine di reputare fondata (sul piano giuridico) e rilevante (sul piano sostanziale) l’istanza avanzata dal nipote, non è necessario che quest’ultimo deduca di essersi trovato in un rapporto di convivenza/coabitazione stabile con il nonno.
Infatti, sarebbe una visione miope (nonché smentita dall’esperienza quotidiana di chiunque intrattenga relazioni endo-familiari di tal fatta) quella di pretendere che l’affetto e la solidarietà intergenerazionali siano legate alla circostanza dirimente di una stabile convivenza tra le parti del rapporto.
La sentenza in questione fa giustizia di un orientamento non solo inaccettabile sul piano logico, ma addirittura in aperta contraddizione con le vicende di cronaca (anche nera) dalle quali siamo quotidianamente bombardati attraverso il circuito massmediatico. Tali “racconti” confermano, con sconcertante regolarità, un teorema esattamente opposto a quello che vorrebbe limitare il riconoscimento dei danni non patrimoniali ai soli legami familiari connotati dalla cifra della convivenza. In effetti – lungi dal rappresentare un fattore di positivo consolidamento del vincolo tra parenti stretti – la condivisione di una dimora spesso funge da detonatore per lo scoppio di atti inconsulti (forieri di conseguenze più o meno gravi). E la genesi di tali intemperanze va rinvenuta proprio nella difficoltà di conservare relazioni affettive serene in situazioni di coesistenza sovente coatta e non frutto di scelte esistenziali adottate in piena libertà e autonomia.
Ma anche a prescindere da tali ultime considerazioni, non possiamo che salutare come “sacrosanta” la pronuncia in oggetto che, peraltro, non implica alcuna rivoluzione sul piano dei principi dell’onus probandi.
Quindi, coloro che si troveranno a invocare questo tipo di tutela, dovranno comunque rigorosamente dedurre (e altrettanto rigorosamente dimostrare) che la relazione tra il nipote e il nonno passato a miglior vita era caratterizzata da un legame affettivo profondo e da una intimità relazionale meritevole di attenzione da parte dell’ordinamento. Essa, però, in alcun modo potrà essere messa in discussione (se non sotto il profilo del quantum debeatur) per la mera assenza di un rapporto di stabile convivenza tra i due.
Avv. Francesco Carraro – www.avvocatocarraro.it
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