Buona fede, mala gestio e danni punitivi
Il problema della compatibilità del nostro sistema giuridico e, in particolare, della materia pertinente la responsabilità civile e il risarcimento del danno con il concetto dei cosiddetti “danni punitivi” è tornato prepotentemente alla ribalta con la sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nr. 16.601 del 2017.
Si tratta di una pronuncia con la quale i giudici di legittimità hanno dovuto prendere in considerazione una sentenza della Corte d’appello di Venezia che, a sua volta, aveva dichiarato immediatamente esecutive nell’ordinamento italiano alcune sentenze pronunciate rispettivamente nel 2008, 2009 e 2010 da tre corti americane.
All’interno di queste sentenze, veniva in rilievo anche la questione dei cosiddetti “danni punitivi”, che, come noto, hanno pieno diritto di cittadinanza nell’ordinamento anglosassone. Le Sezioni Unite sono state interpellate dal ricorrente circa la natura monofunzionale (e cioè solo di carattere satisfattorio-compensativo) o polifunzionale (e cioè anche di carattere sanzionatorio-punitivo) del modello risarcitorio italiano. Ebbene, gli Ermellini hanno sottolineato come il carattere monofunzionale della responsabilità civile (in quanto tale riconducibile ad una sola funzione reintegratoria) deve considerarsi un plesso concettuale ormai “superato”: esso risale, in particolare, a una sentenza della Corte di Cassazione (la nr. 1183 del 2007) che aveva statuito la contrarietà all’ordine pubblico dei danni punitivi proprio perché “distonici” rispetto all’esclusiva finalità riparatoria che deve riconoscersi al risarcimento nel nostro sistema. Oggi, per contro, secondo le SS.UU., va attribuita al rimedio risarcitorio una natura polifunzionale proiettata verso più “aree” nel novero delle quali si situa sia una finalità compensatoria-satisfattiva che una sanzionatorio-punitiva.
Fin dai primi commenti pubblicati all’indomani del deposito della sentenza de quo, la dottrina ha messo in evidenza come, tra le intenzioni ascrivibili ai magistrati del Palazzaccio, non ci fosse quella di mutare lo statuto ontologicamente orientato alla funzione risarcitoria del nostro ordinamento (che continua, perciò, ad essere di prevalente natura riparatoria). Semmai, l’istituto aquiliano può legittimamente recare seco anche una sfumatura di carattere deterrente/sanzionatorio; un quid pluris, per così dire, tale da consentire ai giudici l’appesantimento discrezionale delle condanne con la liquidazione di somme più ingenti di quelle strettamente necessarie a reintegrare il patrimonio della vittima nello statu quo ante.
Non solo: poiché l’art. 23 della nostra carta costituzionale prevede espressamente che ogni prestazione personale debba passare attraverso il vaglio di una “intermediazione legislativa”, nel nostro sistema sarà consentito accedere a una pronuncia di condanna per danni punitivi solo in presenza di una norma che, nel caso concreto, espressamente lo preveda.
Ciò implica che i danni punitivi non possono essere considerati come “immanenti” alla struttura dell’illecito (e delle sue conseguenze) così come disegnata dall’art. 2043 cc.
Ora, la sentenza in commento costituisce uno sprone per il ricercatore, ma anche per l’operatore del diritto, a individuare se e in che misura vi siano, in Italia, norme che già oggi consentono la liquidazione di danni “punitivi” finalizzati a sanzionare un comportamento scorretto, sleale e in malafede. Partiamo allora da quest’ultimo concetto, cioè quello di buonafede, e caliamolo sul piano settoriale delle trattative stragiudiziali finalizzate all’individuazione di una soluzione conciliativa tra l’autore e la vittima di un illecito. Innanzitutto, la norma di riferimento in grado di illuminare tutta la questione è l’art. 1337 c.c. a mente del quale “le parti, nello svolgimento delle trattative contrattuali, devono comportarsi secondo buonafede”. In ossequio all’insegnamento della sentenza delle Sezioni Unite nr. 9645/01, trattasi, di una responsabilità di natura extracontrattuale che cadrà, quindi, sotto la copertura normativa degli artt. 2043 e segg. e, in particolare, dell’art. 2056 c.c.
Tale norma si applica sia nel processo formativo del contratto sia prima, cioè in quel lasso di tempo durante il quale si svolgono, tra le parti, semplici trattative attraverso le quali viene elicitata una inclinazione delle parti stesse rispetto alla stipula negoziale senza però che ci siano stati atti concreti qualificabili alla stregua di una proposta o di una accettazione.
Orbene, durante questo “periodo” – che nella prassi delle trattative in ambito Rc-auto può protrarsi anche a lungo – le parti (quindi sia il patrocinatore stragiudiziale sia il funzionario della compagnia assicurativa) sono tenute al rispetto del canone della buona fede da intendersi in senso oggettivo. Non è cioè necessario che l’elemento soggettivo qualificante la condotta delle parti ridondi in un contegno doloso o di smaccata buonafede. È sufficiente, piuttosto, anche un mero atteggiamento censurabile sul piano della colpa e consistente nel generare in capo a parte avversa la ragionevole convinzione di essere prossima alla chiusura formale della trattativa.
Ergo, ciò che conta massimamente è la generazione di un “affidamento” (della controparte) id est di una confidenza fiduciosa nel fatto che oramai le trattative siano prossime a sfociare in una conclusione positiva dell’affare.
Ciò non significa che le parti siano obbligate a concludere l’accordo: ciascuna di esse potrà recedere anche senza un giustificato motivo (non c’è niente di cui “scusarsi” nel ricusare una opportunità considerata, in prima battuta, appetibile) purché non abbia colposamente ingenerato nel proprio contraddittore l’affidamento di cui poc’anzi si discorreva. Proprio per questo, solo chi recede senza giusta causa dopo aver suscitato l’affidamento avversario nell’esito positivo delle trattative avrà, per ciò, stesso violato l’obbligo di buona fede e lealtà reciproca e dovrà conseguentemente pagarne il fio sotto forma di risarcimento del danno.
Fatta questa premessa possiamo affrontare un tema assai affine a quello testè trattato: ci riferiamo a un istituto che, prima facie, potrebbe far pensare a qualcosa di molto simile alla categoria del “danno punitivo”: la mala gestio, così come concettualmente messa a punto in via giurisprudenziale dalla sentenza delle Sezioni Unite nr. 10.725 /03 e da quella recente della Cassazione nr. 10.221/17.
Ebbene, secondo i canoni sanciti dalle pronunce degli Ermellini, la mala gestio può essere di duplice natura: impropria e propria.
Quella impropria concerne il rapporto tra danneggiato e assicuratore. Trattasi di una responsabilità di natura extracontrattuale per colpevole ritardo che si regge sul disposto degli artt. 22 della legge 990/69 e 145/148 del decreto legislativo 209/05. Sono casi in cui il danneggiato riesce a dimostrare che l’assicurazione non lo ha pagato nei termini previsti dalle succitate norme senza una giustificata ragione. In questi casi – laddove, all’esito dell’eventuale processo, il totale del risarcimento sommato a interessi e rivalutazione fosse superiore al massimale di polizza – il danneggiato avrebbe diritto a quella porzione del montante complessivo (eccedente il massimale) che corrisponde proprio agli interessi e alla rivalutazione.
Il caso della mala gestio propria è diverso perché non riguarda il rapporto tra danneggiato e assicuratore, ma semmai quello tra assicurato e assicuratore e ha natura contrattuale. Esso si fonda sugli art. 1173 e 1175 c.c. ed è integrato da tutte quelle ipotesi in cui si verifichino, da parte della compagnia, un disinteresse o addirittura un rifiuto a trattare la lite o una gestione impropria e pretestuosamente dilatoria della stessa. Ove accada che, all’esito del processo, il cliente danneggiato sia condannato a una cifra superiore a quella del massimale di polizza, la vittima del sinistro ha diritto di essere manlevata dalla propria compagnia anche di quella parte del risarcimento che ecceda, per ipotesi, il massimale.
Quindi, la mala gestio propria copre la differenza tra ciò che il responsabile civile avrebbe effettivamente pagato in caso di buona condotta dell’assicurazione e ciò che invece si è trovato a pagare a cagione del colpevole ritardo di quest’ultima. A differenza della mala gestio impropria, quella propria concerne, perciò, non solo gli interessi e il maggior danno ex art. 1224, secondo comma c.c., ma l’intero ammontare della posta risarcitoria eccedente il massimale.
Trattandosi un inadempimento di natura contrattuale l’assicurato, ove voglia giovarsene, deve formulare una esplicita domanda (a differenza di quanto accade nella mala gestio impropria dove la relativa domanda del danneggiato si considera implicitamente contenuta nella ordinaria richiesta di cui alle formule di rito con le quali, nelle citazioni, gli avvocati domandano una certa somma maggiorata, appunto, di rivalutazioni e di interessi dal giorno dell’evento al saldo).
L’istituto di cui abbiamo parlato, a ben vedere, non può considerarsi alla stregua di un danno punitivo in senso stretto in quanto ha pur sempre una caratteristica marcatamente risarcitoria.
Per trovare qualcosa di simile, a tutti gli effetti, a un danno di natura punitiva, dobbiamo rivolgere la nostra attenzione all’art. 96 comma terzo c.p.c . Prima, però, è opportuno accennare a due rimedi di natura pre-processuale introdotti ne nostro ordinamento negli ultimi anni: il primo è la mediazione obbligatoria originariamente prevista dal d.Lgs. nr. 28/2010 e successivamente (dopo una declaratoria di incostituzionalità) reintrodotto con il cosiddetto “decreto del fare” (d.l. 69/13 convertito in lg. 98 del 09/08/2013). il secondo rimedio è quello della negoziazione assistita introdotto dal decreto legge 132/14 e successivamente convertito con lg. 162/14.
Per quanto riguarda la mediazione obbligatoria, essa si applica, ai sensi dell’art. 5 comma 1bis d.lgs. 28/2010 alle controversie in materia di: condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno da diffamazione, contratti assicurativi, finanziari, bancari, risarcimento del danno da RC-medica. Per quel che qui ci interessa, ci occupiamo di quest’ultima materia (malpractice medica). La legge prevede che la mediazione obbligatoria costituisce una condizione di procedibilità della domanda che si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo. L’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice non oltre la prima udienza; è obbligatoria l’assistenza di un avvocato e l’eventuale accordo conciliativo è sottoscritto sia dalle parti che dagli avvocati che attestano e certificano la conformità dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico.
L’avvocato è obbligato a informare i clienti dell’esistenza di tale istituto e il giudice, qualora rilevi che il procedimento è iniziato ma non concluso, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine entro cui deve concludersi la mediazione mentre, se la mediazione non è stata esperita, assegna alle parti un termine di 15 gg. per la presentazione della relativa domanda. Nel caso in cui una parte non partecipi senza un giustificato motivo, il giudice non solo può desumere argomenti di prova da tale contegno ostruzionistico nel successivo giudizio (ex articolo 116 comma 2 c.p.c.), ma può condannare la parte costituita al versamento nelle casse dello stato di una somma pari al contributo unificato dovuto per la causa.
Quanto invece alla negoziazione assistita, la sua disciplina ricalca grosso modo quella della mediazione ma si applica obbligatoriamente anche all’RC-auto e alle domande di pagamento di qualsiasi somma non eccedente i 50 mila euro. Nel caso della negoziazione è espressamente previsto che, laddove la parte non risponda all’invito alla negoziazione entro 30 gg., ovvero opponga un rifiuto, il suo contegno può essere valutato dal giudice ex art. 96 c.p.c.
E veniamo ora al cuore della questione. L’art. 96 c.p.c. rubricato come “Responsabilità aggravata” è stato novellato dall’art. 45 della legge 18.6.2009 n. 69 la quale ha aggiunto ai primi due commi (con i quali si punisce chi agisce o resiste in giudizio con mala fede e colpa grave) un terzo comma che utilizza la leva dei costi processuali per scoraggiare gli abusi e che ha una tipica funzione sanzionatoria (il Tribunale di Roma, con sentenza del 28.5.13, n. 11.676, l’ha espressamente definita come “sanzione d’ufficio”) in grado di qualificarla senz’altro come una forma di danno punitivo. Infatti, mentre ai fini dell’applicazione dell’art. 96, primo e secondo comma c.p.c., sono necessari un’istanza di parte, la prova della malafede avversaria e l’esistenza di un danno risarcibile (che la giurisprudenza configura come danno da abuso del diritto di natura non patrimoniale e presuntiva assimilabile al danno oggettivo per durata irragionevole del processo di cui alla legge 24.03.01 n. 89, cosiddetta legge Pinto), nel caso del comma terzo la pena pecuniaria può essere liquidata d’ufficio dal giudice indipendentemente da un’istanza di parte e soprattutto a prescindere dalla prova del danno subito (come evidenziato da Cass. nr. 17902/10).
Ci si è chiesti se tale pena possa considerarsi compatibile con il diritto costituzionale e con quello comunitario: con il primo in ragione dell’ostacolo rappresentato dall’art. 24 della Costituzione che garantisce l’esercizio del diritto di azione ed eccezione (foss’anche infondata!); con il diritto comunitario in ragione del regolamento 864/07, considerando 32, che “perimetra” l’ammissibilità delle norme comunitarie che stabiliscono delle pene pecuniarie senza funzione risarcitoria. La risposta è stata positiva, in entrambi i succitati casi, secondo la giurisprudenza, alla luce delle seguenti considerazioni: quanto al diritto di agire in giudizio, l’art. 96 non lo inibisce non foss’altro che per il fatto di esigere (al fine della sanzione) un contegno quantomeno gravemente colposo; quanto al regolamento europeo di cui sopra, esso, in realtà, mette in guardia solo contro i danni punitivi eccessivi, ma non li esclude in linea di principio.
Tornando al terzo comma dell’art. 96 c.p.c., ci si è chiesti cosa significano le parole “in ogni caso” utilizzate nell’incipit della norma. Infatti, nei primi due commi è punito con un risarcimento colui che agisce o resiste nel processo con malafede e colpa grave, mentre invece, nel terzo, la malafede e la colpa grave non sono menzionate. Ebbene, secondo l’interpretazione più accreditata, anche il terzo comma fa riferimento a fattispecie dolose o gravemente colpose; secondo altri, invece, ai fini dell’applicazione dal danno punitivo del terzo comma, sarebbe sufficiente anche la semplice colpa di non rilevante entità.
Comunque sia, il danno deve essere liquidato dal giudice equitativamente, ma motivatamente (in conformità ai principi costituzionali di solidarietà, eguaglianza, durata ragionevole del processo) sempre ricordando che l’equità non può costituire un’alternativa alla legge trattandosi di un principio a sua volta condizionato e vincolato dai soprastanti principi costituzionali ed extra-costituzionali disciplinanti la materia.
Nelle sentenze più recenti vi sono vari esempi di utilizzo di questa norma per sanzionare il contegno delle compagnie assicuratrici che tengono un atteggiamento strumentalmente ostruzionistico nel corso del processo e, in genere, il parametro più utilizzato per determinare la pena è quello di liquidare un multiplo delle spese processuali già messe a carico della parte soccombente.
In definitiva, possiamo concludere che vi sono già, in Italia, norme contemplanti lo strumento (con funzione sanzionatoria) del danno punitivo, in particolare nei confronti di coloro che mal si atteggiano nell’ambito dell’interlocuzione con la controparte processuale. Nulla di minimamente avvicinabile al danno punitivo “all’americana”, ma quantomeno qualcosa di utile per ricondurre il contegno di molti attori del ramo assicurativo a un livello di minima correttezza.
Avv. Francesco Carraro
www.avvocatocarraro.it