Caro amico ti scrivo (poco)
Il Consiglio Nazionale Forense e la Corte di Cassazione hanno raggiunto un’intesa e siglato un protocollo che impegna gli avvocati italiani a darci un taglio. È stato elaborato un criterio di redazione degli atti volto al contenimento obbligatorio del loro numero di pagine, uno sforzo di sintesi per evitare ai Tribunali la morte di asfissia da carta stampata. Quindi, d’ora innanzi, gli avvocati non solo dovranno scrivere meno, ma dovranno scrivere uguale, uniformando anche graficamente le loro memorie e comparse a un modello standard predisposto dall’alto. Niente di strano. I vertici di magistratura e avvocatura hanno solo anticipato di poco l’entrata in vigore di una legge che imporrà, a prezzo di adeguate sanzioni, ai principi del foro di farsi stringati e succinti.
L’epoca è quella che è e non tollera divagazioni e voli pindarici. C’è bisogno di far funzionare le pulegge e i cilindri di un’economia inceppata, mica i neuroni e il linguaggio di soggetti pensanti. Là fuori c’è la fila di investitori stranieri in attesa che ci diamo una smossa a far ripartire il treno ottocentesco della giustizia. Così, dare una limatura alle produzioni intellettuali di una classe media inutile e infingarda (che ha da sparire, prima o poi, come quella delle toghe) pare un’idea geniale. E l’autogoverno delle lingue e dei pensieri, la censura coatta mica viene dall’esterno. Sono le stesse istituzioni rappresentative della giustizia ad imporsela. Mai sottovalutare la pressione e l’attitudine alla moral suasion dei grandi capitali privati. Si mangiano uno Stato a colazione, coi tre poteri compresi, figurati che gli costa dare un’aggiustata alla giustizia. Ma forse non è neanche questo il punto. Il punto vero è l’inarrestabile deriva cui siamo condannati come classe (i cosiddetti legali) espressione di un popolo (i cosiddetti cittadini). La deriva è linguistica e cerebrale. Ci stiamo impoverendo, per legge e per autolesionismo, persino della più preziosa risorsa della tradizione nazionale: la lingua. E lo facciamo riducendo a riserve indiane (meticolosamente millimetrate) gli spazi a disposizione per elaborare ed esprimere i concetti e le idee. Il protocollo del CNF non spaventa perché è in sé sbagliato (in fondo, ha le sue buone intenzioni), ma perché non è il punto di arrivo, ma il punto di partenza di un processo. Obbligare un avvocato, oggi, a contenere le difese in trenta pagine (pena la condanna alle spese legali del suo cliente) significa porre le basi perché quelle pagine diventino venti, in attesa che qualche solerte funzionario le riduca a quindici e poi a dieci.
Fino ad approdare al questionario precompilato: l’atto giudiziario come il modulo di constatazione amichevole di un incidente. Ma la classe forense non coglierà questo pericolo perché, in buona fede, è concentrata sull’apparente obiettivo di corto respiro proprio della riforma (velocizzare e semplificare il sistema giudiziario) e non su quello reale e di lungo respiro dell’epoca storica: il depotenziamento, l’immiserimento e, infine, la neutralizzazione del linguaggio. La neo-lingua, profetizzava Orwell, avrà pochissimi termini. Con meno parole la Matrice guadagna capacità ed efficienza nel fare, gli ingranaggi perdono capacità ed efficienza nel pensare. E se protesti ti dicono di adeguarti. E di non pensarci più.
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