Quanto dobbiamo preoccuparci per la nostra libertà? E quanto, in particolare, per la nostra libertà di espressione e manifestazione del pensiero? È un dubbio ricorrente di questi tempi allorché – a corrente alternata, ma più spesso anzichenò – si ha la sensazione che questa agognata libertà si avvii a diventare un’eccezione piuttosto che la regola del dibattito pubblico (dove si forma la cosiddetta “pubblica opinione”).
Nel 2024 festeggerà il suo diciottesimo compleanno una delle riforme più importanti del comparto (e del mercato) assicurativo italiano: quella introdotta con decreto legislativo nr. 209/2005 entrato in vigore, appunto, il primo di gennaio del 2006 e meglio conosciuta come Codice delle Assicurazioni private.
Che bilancio possiamo trarne? Sicuramente negativo per quanto riguarda uno dei suoi fiori all’occhiello: vale a dire il cosiddetto sistema di “risarcimento diretto”. Tale riforma istituzionalizzò, come obbligo, ciò che esisteva anche prima come mera facoltà (e cioè la possibilità di rivolgersi alla propria compagnia per vedersi liquidati i danni in forza, e in virtù, della “convenzione di indennizzo diretto” introdotta nel 1978). La rivoluzionaria trovata portò a capovolgere il sistema classico della responsabilità civile automobilistica: a risarcire chi pativa il pregiudizio, in un sinistro stradale, non sarebbe più stata l’assicurazione del responsabile civile, ma quella dello stesso danneggiato.
Da più parti si torna a parlare del nuovo Regolamento Sanitario Internazionale dell’OMS e del cosiddetto “trattato pandemico”. Sono due cose diverse, ma intimamente connesse, e dal loro combinato disposto potrebbe conseguire un irrimediabile vulnus alla sovranità dei singoli Stati in materia di salvaguardia della salute individuale e di “governance” di quella collettiva; ma, soprattutto, ambedue mettono a rischio un diritto inviolabile non meno importante della salute: quello della libertà di espressione e manifestazione del pensiero. Partiamo dal Regolamento Sanitario Internazionale (RSI), finalizzato al contrasto delle malattie infettive. Ebbene, le modifiche sul piatto (che saranno oggetto della 77esima assemblea mondiale della sanità prevista per il mese di maggio 2024) legittimano più di una preoccupazione. In primis, risultano (fin troppo) rafforzati il ruolo e i poteri dell’OMS rispetto alle prerogative degli Stati in ambito sanitario.
Nella terribile vicenda dell’omicidio efferato di Giulia Cecchettin c’è una chiave di lettura logica, razionale, evidente. Ma ne è stata imposta un’altra assurda, contraddittoria, strumentale. E non è un caso che la prima l’hanno impiegata, d’istinto, i genitori del giovane assassino che lo conoscevano, e lo conoscono, ovviamente meglio di qualsiasi altro pensoso intellettuale o autorevole anchor man. “La sua testa ha smesso di funzionare, il maschilismo non c’entra”, ha detto il padre di Federico Turetta. Sottolineando come solo la psichiatria, ma forse nemmeno essa, può dar conto di una simile, brutale violenza scatenatasi, a colpi di coltello, contro una vittima inerme.
Nel campo della c.d. malpractice (o responsabilità professionale medica) uno degli aspetti più delicati è quello dell’ineludibile connotato di imparzialità da cui dovrebbero essere contrassegnati il profilo e la funzione dei consulenti tecnici di ufficio nominati dall’autorità giudiziaria. Ciò vale, in ispecie, nella fase preliminare del rimedio costituito dalla cosiddetta ATP ante causam da promuoversi con ricorso ex art. 696 bis c.p.c. (divenuto un passaggio quasi obbligatorio per effetto delle prescrizioni introdotte dalla c.d. legge Gelli Bianco, nr. 24 del 2017).
Si potrebbe ben dire che, con riferimento alla figura del CTU, valga quanto evidenziato a suo tempo dalle SS.UU. della Cassazione a proposito dei magistrati: “L’esercizio della funzione giurisdizionale impone al giudice il dovere non soltanto di ‘essere’ imparziale, ma anche di ‘apparire’ tale” (Cass. Civ., Sez. Unite, sentenza 14 maggio 1998 n. 8906).
Il legislatore ha dimostrato di avere piena contezza dell’importanza del tema disciplinandolo con una noma ad hoc contenuta nella succitata disposizione normativa del 2017.
L’art. 15 della legge Gelli-Bianco, infatti, così prescrive: “Nei procedimenti civili e nei procedimenti penali aventi ad oggetto la responsabilità sanitaria, l’autorità giudiziaria affida l’espletamento della consulenza tecnica e della perizia a un medico specializzato in medicina legale e a uno o più specialisti nella disciplina che abbiano specifica e pratica conoscenza di quanto oggetto del procedimento, avendo cura che i soggetti da nominare, scelti tra gli iscritti negli albi di cui ai commi 2 e 3, non siano in posizione di conflitto di interessi nello specifico procedimento)”.
Ora, è inequivocabile, in base al tenore della norma (cfr. parte sopra evidenziata in corsivetto) che è l’autorità giudiziaria (e non la difesa tecnica delle parti coinvolte) a dovere “aver cura” che i CTU nominati non siano in conflitto di interessi.
Il che risponde perfettamente alle finalità di “buon governo” del procedimento di accertamento medico-legale affidato alla supervisione del magistrato.
Proprio per la delicatezza del compito “af-fida-to” (dal Giudice) al CTU, e proprio perché il pre-requisito essenziale di tale “af-fida-mento” è la fiducia, è al primo di tali soggetti (il Giudice, appunto) che spetta l’onere di, prodromicamente, vagliare la sussistenza in capo al secondo (il CTU) di una “postura” inattaccabile (sul piano professionale, se non addirittura deontologico) che lo ponga al di sopra di ogni sospetto di faziosità: in grado, cioè, di salvaguardare una cristallina e incontestabile equidistanza tra le parti del processo.
In proposito, in una raccomandazione della VII Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura del 25.10.2017 si rimarca l’importanza di “preservare” la dimensione della imparzialità in subjecta materia: “Se in linea generale la nomina dell’ausiliario deve avvenire nell’ambito dell’albo istituito presso il Tribunale di appartenenza (così artt. 221 e 359 c.p.p. e art. 61 c.p.c.), non mancano ipotesi in cui sorge per l’autorità giudiziaria l’esigenza di nominare consulenti o periti non iscritti al proprio albo di appartenenza. Questo tanto più in una materia quale la responsabilità sanitaria in cui, stante il rilievo della specialistica, soventi sono i casi di incompatibilità. Inoltre, proprio in considerazione della particolarità della materia, talora vi è la necessità di nominare ausiliari fuori distretto, al fine di assicurare, oltre che un adeguato livello qualitativo dell’accertamento, che questo sia in quanto più possibile imparziale. In tali casi i codici di riti prevedono che la nomina deve essere adeguatamente motivata (artt. 67 dis att c.p.p e 22 dis. att c.p.c.)”.
A questo punto, è legittimo chiedersi: una parte processuale è tenuta a informarsi dell’esistenza di eventuali ragioni di incompatibilità per conflitto di interessi (effettivo o potenziale) in capo a un consulente tecnico medico-legale d’ufficio incaricato dal Giudice?
A ben vedere, a tale domanda va data una risposta negativa. Non può di certo esigersi che le parti del processo si improvvisino, di volta in volta, “investigatori” sulle tracce del curriculum e dei precedenti intercorsi professionali del CTU, nel lasso di tempo che va dalla designazione al conferimento dell’incarico (con correlato giuramento).
Non solo una simile attività non è prescritta da alcuna norma del codice di procedura civile, non solo non viene di prassi (ovviamente) svolta da nessuna parte processuale (in nessun processo), ma essa costituirebbe – laddove intrapresa – una manifesta carenza di considerazione e fiducia (sfociante addirittura in una patente mancanza di rispetto) sia nei confronti del CTU sia nei confronti del giudice che quel CTU ha nominato. Non foss’altro perchè deve sempre presumersi, fino a prova contraria, la imparzialità dell’uno (nel conferimento dell’incarico) e dell’altro (nell’accettazione dello stesso).
Ma se ciò vale per la parte, altrettanto non può dirsi per il Giudice per quanto sopra evidenziato: quest’ultimo – in base al già citato art. 15 della “Gelli-Bianco” – ha il dovere di sincerarsi “che i soggetti da nominare, scelti tra gli iscritti negli albi di cui ai commi 2 e 3, non siano in posizione di conflitto di interessi nello specifico procedimento”.
Ad ogni buon conto – a prescindere dalle improponibili, e francamente inammissibili, investigazioni “propedeutiche” al giuramento – può ben accadere che una parte possa aliunde apprendere di una circostanza atta a vulnerare l’alone di imparzialità (data sempre per scontata e per presupposta) di un CTU.
A questo punto, si profilano due scenari: o l’informazione giunge all’attenzione della parte prima dell’udienza (fissata per la nomina e il giuramento del consulente) oppure giunge dopo.
Nel primo caso, la parte ha l’onere di ricusare il CTU entro il termine perentorio di tre giorni prima del conferimento dell’incarico ex art. 192 c.p.c.
Nel secondo caso, invece, alla parte resta solo la possibilità di “appellarsi” al Giudice ex art. 196 c.p.c., adducendo gravi motivi idonei a giustificare un “atto di imperio” del magistrato.
La Cassazione insegna, a tal proposito: “In caso di inutile decorso del termine fissato dall’art. 192 c.p.c. per la proposizione della istanza di ricusazione del c.t.u., la valutazione delle ragioni che giustificano un provvedimento di sostituzione dello stesso c.t.u., a norma dell’art. 196 del codice di rito, è rimessa esclusivamente al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se correttamente e logicamente motivata”. (Cassazione civile sez. lav., 17/02/2004, n. 3105).
Ebbene, i “gravi motivi”, potrebbero senz’altro essere integrati dalla fondatezza delle notizie (sulla incompatibilità del consulente) apprese dalla parte. Essi potrebbero, altresì, giustificare una convocazione del CTU medesimo – davanti al Giudice e in contraddittorio con tutte le parti della causa – onde consentirgli di prendere posizione rispetto alla sollevata obiezione di sospetta parzialità.
Ciò consentirebbe di appurare la sussistenza (o meno) delle ragioni idonee a giustificare la revoca dell’incarico e la designazione di un nuovo consulente medico-legale, in sostituzione del precedente, da parte del giudice.
Di certo, quest’ultimo non potrebbe, in casi consimili, opporre alla parte una eventuale decadenza ai sensi e per gli effetti del succitato art. 192 c.p.c. per non aver provveduto alla ricusazione nei termini di cui alla prefata norma.
Infatti, è proprio il Giudice che – in base alla legge Gelli-Bianco – è tenuto ad “aver cura” di accertare l’assenza di conflitto di interessi in capo al designato CTU (ex art. 15) prima di nominarlo. Con la conseguenza che da un lato – della validità di una eventuale CTU comunque espletata da un CTU il cui conflitto è “affiorato” solo dopo il giuramento – sarebbe più che lecito dubitare; dall’altro, il Giudice dovrebbe, in tal caso e senza por tempo in mezzo, revocare la nomina anche dopo l’avvenuto giuramento.
Si badi bene: quando si discorre di ragioni di “incompatibilità” non ci si riferisce ovviamente alle (né si deve aver riguardo per le) competenze acquisite o abilità tecnico-scientifiche o eccellenze accademiche di un professionista; né il giudice deve guardare (per determinarsi nel senso di interrompere, o addirittura rinnovare, una CTU) alla scorrevolezza stilistica o al pregio logico delle argomentazioni di un elaborato peritale eventualmente già depositato.
Il magistrato potrà solo, ed esclusivamente, ponderare la veridicità del motivo di protestata incompatibilità. Rectius: non solo “potrà” farlo, ma “dovrà” farlo giusta quanto anzidetto.
Concludendo, alla luce di tutti i rilievi di cui sopra, non vi è dubbio che il potere del giudicante di cui all’art. 192 c.p.c., vieppiù “legibus” sic stantibus (e cioè dopo l’entrata in vigore della legge nr. 24 del 2017), debba essere esercitato con massimo scrupolo – e probabilmente con incrementata sollecitudine rispetto a quanto già non avvenisse in precedenza – dall’autorità giudiziaria competente.
Francesco Carraro
www.avvocatocarraro.it
Un’interessantissima sentenza della Corte di Cassazione, sez. III, la n. 12.470 del 18.05.17, ha affrontato con piglio decisamente innovativo la problematica dei cosiddetti danni riflessi dei prossimi congiunti di soggetto macroleso.
In proposito, si è consolidata ormai da qualche anno – nella giurisprudenza di merito e di legittimità – la convinzione che meriti accoglienza, ove adeguatamente allegata e dimostrata, non solo la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale dei prossimi congiunti di un soggetto deceduto, ma anche quella dei parenti stretti di una persona la quale abbia riportato lesioni gravissime seppur non esitate in un infausto e mortale destino.
Per la giurisprudenza univoca, sia di merito che di legittimità, i danni cagionati da manufatti stradali implicano una responsabilità oggettiva in capo all’ente titolare del bene in base all’articolo 2051 del Codice civile: “Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”.
La citata norma vale anche per l’ente proprietario e gestore di strade pubbliche per l’evento lesivo cagionato a terzi per non aver detto ente provveduto a rimuovere le anomalie presenti nel manto stradale; va, pertanto, considerata superata la giurisprudenza che – in virtù della grande estensione del demanio stradale e della sua generalizzata utilizzazione – escludeva la responsabilità ex art. 2051 c.c. dell’ente gestore del demanio stesso, confinandola all’ipotesi di danno prodottosi per la presenza di insidia e trabocchetto ai sensi dell’art. 2043 c.c.
Nel dibattito pro o contro il vaccino obbligatorio bisogna ascoltare i giuristi o gli scienziati? La risposta è ovvia: i primi. I secondi possono aiutarci a capire se un vaccino è efficace o meno (questione clinica). I giuristi dovrebbero avere invece – se non l’ultima – almeno una decisiva parola rispetto all’obbligatorietà (questione giuridica). Sennonché, sembra che in Italia anche la faccenda dell’imposizione coercitiva del vaccino sia appannaggio della scienza o di alcune sue branche, come la virologia. E – al contrario di quanto sarebbe lecito, e giusto, attendersi – non pare che la scelta del governo Draghi di prevedere la vaccinazione obbligatoria per gli esercenti le professioni sanitarie sia stata preceduta da una seria riflessione giuridica. Un provvedimento a mio avviso di dubbia efficacia, ma soprattutto di dubbia legalità, e qui provo a spiegarvi il perché.