Il principio del “più probabile che non” e l’infezione nosocomiale
La giurisprudenza maggioritaria in tema di nesso di causa, in ambito di malpractice medica, ritiene che “il nesso causale può essere ritenuto sussistente non solo quando il danno possa ritenersi conseguenza inevitabile della condotta, ma anche quando ne sia conseguenza altamente probabile e verosimile, non già una mera possibilità astratta” (in questo senso: Cass.civ. n. 23059/09; Cass.civ. n. 10285/09; Cass.civ. n. 14759/07; Cass.civ. n. 22894/05).
Si è ormai consolidato l’orientamento giurisprudenziale per cui, mentre in ambito penale la prova della causalità deve essere raggiungere l’‘oltre ogni ragionevole dubbio’ (e comunque anche in questo caso non si parla in termini di certezza), in ambito civilistico il nesso di causa consiste nella relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso secondo il criterio ispirato alla regola della normalità causale del “più probabile che non” (cfr. Cass. civ., sent. n. 7195/14; Cass.civ. S.U. n. 581/08; Trib. Milano, 22.04.09 n. 5322; cfr. anche Cass.civ. n. 10741/09).
Secondo un’interpretazione ormai costante: “l’autonomia del processo civile rispetto a quello penale si riflette anche in materia probatoria, vigendo in quest’ultimo la regola della prova ‘oltre il ragionevole dubbio’ e nel primo la diversa regola della preponderanza dell’evidenza o ‘del più probabile che non’. Detto ‘standard’ di ‘certezza probabilistica’, non potendo essere ancorato esclusivamente alla determinazione quantitativa-statistica delle frequenze di classi di eventi, deve applicarsi anche quando vi sia un problema di scelta di una delle ipotesi, tra loro incompatibili o contraddittorie, sul fatto, “con la conseguenza di dover porre a base della decisione civile la soluzione derivante dal criterio di probabilità prevalente la quale riceva comparativamente il supporto logico relativamente maggiore sulla base degli elementi di prova complessivamente disponibili” (Cass. civ. n. 10285/09).
Come insegna la Suprema Corte: “la valutazione del nesso causale in sede civile, pur ispirandosi ai criteri di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., secondo i quali un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché al criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all’interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano – ad una valutazione ‘ex ante’ – del tutto inverosimili, presenta tuttavia notevoli differenze in relazione al regime probatorio applicabile, stante la diversità dei valori in gioco tra responsabilità penale e responsabilità civile. Nel processo civile vige la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, mentre nel processo penale vige infatti la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio” (Cass., sez. III, 21 luglio 2011, n. 15991). In un’altra pronuncia si legge: “la causalità civile ‘ordinaria’, attestata sul versante della probabilità relativa (o “variabile”), caratterizzata, specie in ipotesi di reato commissivo, dall’accedere ad una soglia meno elevata di probabilità rispetto a quella penale, secondo modalità semantiche che, specie in sede di perizia medico-legale, possono assumere molteplici forme espressive (‘serie ed apprezzabili possibilità’, ‘ragionevole probabilità’ ecc.), senza che questo debba, peraltro, vincolare il giudice ad una formula peritale, senza che egli perda la sua funzione di operare una selezione di scelte giuridicamente opportune in un dato momento storico: senza trasformare il processo civile (e la verifica processuale in ordine all’esistenza del nesso di causa) in una questione di verifica (solo) scientifica demandabile tout court al consulente tecnico: la causalità civile, in definitiva, obbedisce alla logica del ‘più probabile che non’” (Cass civ., sent. n. 21619/07).
In buona sostanza, ogniqualvolta l’azione o l’omissione siano in se stesse concretamente idonee a determinare l’evento, il difetto di accertamento di un fatto astrattamente idoneo a escludere il nesso causale tra condotta ed evento non può essere invocato, benché sotto il profilo statistico quel fatto sia ‘più probabile che non’, da chi quell’accertamento avrebbe potuto compiere e non abbia effettuato. Ne consegue che è responsabile il personale sanitario dell’ospedale per omessa vigilanza, errata diagnosi e ritardo nell’attuazione di idonea terapia, ogniqualvolta sussista il nesso di causalità tra la condotta e l’evento e non venga fornita una prova positiva di assenza totale di colpa da parte del personale sanitario stesso (Cassazione civile, sez. III, 17.02.11, n. 3847).
Questo principio può trovare adeguata applicazione nell’ambito delle infezioni nosocomiali. Infatti, di fronte alla mancata prova certa che l’infezione fosse già presente in capo al paziente per essere stata contratta aliunde (e comunque prima dell’intervento chirurgico) deve ritenersi, proprio in ossequio al principio citato del ‘più probabile che non’, che, con altissima probabilità, l’infezione medesima sia stata contratta per via nosocomiale.
Tipico il caso della discite post chirurgica. Il microrganismo principalmente responsabile della discite post chirurgica è generalmente lo Staphylococcus aureus, anche se in minor percentuale si ricordano altri tipi batterici (St. epidermidis, M. tubercolosis, e. coli, micobatteri atipici, miceti, virus). Tali disciti sono in genere causate da insufficiente asepsi del campo operatorio, insufficiente decontaminazione settica della sala operatoria e dello strumentario chirurgico ovvero dalla presenza di personale medico e/o infermieristico portatore di focus infettivo. Nella maggior parte dei casi la contaminazione avviene durante l’intervento, a volte nei primi giorni post-operatori per causa di medicazioni e/o drenaggi. I microrganismi causa dell’infezione provengono sia dall’ambiente esterno sia dalla flora batterica del paziente (germi endogeni). L’esclusione di altre cause, quando non siano emersi nel corso delle indagini medico-legali fattori idonei sotto il profilo causale a ingenerare le lesioni riportate dal danneggiato, comporta l’insorgere della responsabilità in capo alla struttura ospedaliera e ai sanitari intervenuti.
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