La Cassazione torna sul danno da perdita della vita

Con sentenza nr. 22451 del 27.09.17, la Cassazione Civile è tornata a occuparsi delle voci di danno afferenti alla parte terminale della vita di un soggetto incorso in un grave sinistro stradale. Una buona occasione – per i giudici di legittimità – di fare il punto su una delicata e controversia materia. E ciò a distanza di due anni dalla pubblicazione della nota sentenza delle Sezioni Unite nr. 15350 del 22.07.15 con la quale le stesse SS.UU. avevano escluso definitivamente dal novero dei danni non patrimoniali risarcibili quelli consistenti nella “perdita della vita”.

Nel caso affrontato dagli Ermellini, con la pronuncia del mese scorso, i ricorrenti (eredi nonché prossimi congiunti della vittima di un incidente dall’esito infausto) si dolevano del fatto che la Corte d’Appello avesse rigettato la richiesta di risarcimento del danno psico-fisico (patito dalla vittima primaria) nelle more tra l’impatto, rivelatosi poi letale, e il successivo decesso.

Secondo la ricostruzione operata dalla Corte, con la sentenza in commento – che a sua volta si rifà ai “paletti” fissati dalla pronuncia delle S.U. del 2015 –, i danni non patrimoniali, nel caso di morte non immediata, possono essere ricondotti a tre categorie, due delle quali meritevoli di accoglimento laddove adeguatamente comprovate in sede istruttoria: 1) danno biologico cosiddetto “terminale”; 2) danno morale cosiddetto “catastrofale”; 3) danno tanatologico da perdita del “bene vita”.

Il terzo tipo di pregiudizio è stato definitivamente espunto dall’ambito di quelli passibili di ristoro proprio dalla pronuncia delle Sezioni Unite di cui sopra. La motivazione di tale esclusione è nota: se il decesso si verifica nell’immediatezza dell’accadimento lesivo, non ci può essere risarcimento iure hereditatis per la elementare ragione, logica prima che giuridica, della fisica mancanza di un soggetto dotato di capacità giuridica il quale sia, per ciò stesso, idoneo ad attrarre nel proprio “patrimonio” un qualsivoglia diritto (compreso come quello al risarcimento per la privazione della di lui esistenza in vita).

Trattasi di un paradosso da cui nemmeno le menti più avvedute e le penne più lucide della nostra dottrina e giurisprudenza sono riuscite a districarsi e la cui ratio può essere ben compendiata dal celeberrimo aforisma del filosofo Epicuro: non temete la morte perché – se c’è la morte – non ci siete voi e – e se ci siete voi – non c’è la morte. Dal quale monito filosofico discende l’ovvio corollario giuridico per cui – se viene meno la persona fisica – non c’è neppure un soggetto giudico in grado di “consolidare” su di sé, e poi trasmettere, il diritto al risarcimento per una brutale privazione della vita.

Quanto alla prima delle tipologie di danno suindicate, trattasi come anzidetto, del danno biologico “terminale”: esso si concreta nei postumi, necessariamente non permanenti, che il corpo della vittima ha patito dall’attimo dell’impatto a quello del decesso; siamo al cospetto, in tal caso, di un danno-conseguenza ristorabile solo se vi sia stato un “apprezzabile lasso di tempo” tra l’incidente stesso e il trapasso (lasso di tempo che la giurisprudenza ravvisa anche in un arco cronologico di poche ore).

Veniamo, per concludere, al danno morale catastrofale che – come rivela l’aggettivazione – consiste nella condizione di estrema sofferenza e angoscia (morale e spirituale) che un essere umano sperimenta nell’approssimarsi – con la lucida consapevolezza della incombente consumazione del dramma – all’exitus della propria biografia personale. In questo caso, sarà decisiva la dimostrazione non tanto (o solo) del decorso di un bastevole lasso di tempo tra il sinistro e il decesso, quanto piuttosto un’altra prova: quella della sopravvivenza del soggetto in uno stato di coscienza di sé; sufficiente, quantomeno, per avere il medesimo piena contezza della sua irrimediabile malasorte e della precipitazione non reversibile degli eventi verso la loro consumazione finale.

Avv. Francesco Carraro – www.avvocatocarraro.it

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