La Corte di Cassazione fa il punto sul nesso causale in ambito di malasanità

Una sentenza della III Sezione della Corte di Cassazione –  Presidente Travaglino e relatore Scoditti, del 26.07.2017, n. 18.392 –  è intervenuta, con articolate argomentazioni, sul tema del nesso causale in materia di responsabilità professionale medica. Il pregio della pronuncia è quello di aver fatto chiarezza sui criteri di ripartizione dell’onus probandi in ambito di malpractice, il che non è circostanza da sottovalutare. Infatti, parliamo di una questione che sconta –  purtroppo a tutti i livelli – una buona dose di superficialità da parte di coloro che vi si accostano (sia in ambito forense che giudiziario). Un problema –  quest’ultimo –  tipico di tutti i grandi temi del diritto intorno ai quali si sia creato un consolidato indirizzo giurisprudenziale.  Il proverbiale “pacifico orientamento” finisce sovente per tramutarsi in un sedimentato alveo all’interno del quale scorrono, come sul letto di un fiume, “correnti” di pensiero infarcite di luoghi comuni, pregiudizi inveterati e anchilosate disabitudini (apprese) all’analisi critica.

Con precipuo riferimento al caso di specie, la Cassazione ha messo in rilievo la necessità di distinguere due “cicli causali” onde evitare fraintendimenti forieri di errate interpretazioni e decisioni fuorvianti. Il primo ciclo causale concerne il rapporto tra la condotta dei sanitari e l’evento dannoso. Il secondo ciclo causale attiene, invece, alla dimostrazione della impossibilità – da parte dei sanitari medesimi – di adempiere alla propria specifica mansione con il diligente contegno che dovrebbe connotarne l’operato.

Il primo ciclo causale –  sottolinea dice la Cassazione –  si colloca, per così dire, “a monte” della fattispecie concreta in ipotesi esaminata. Il secondo ciclo, al contrario, si colloca a “valle” della stessa.

Ebbene, quanto al primo, esso si concreta nella necessità di dimostrare (da parte dell’attore danneggiato) la sussistenza di un convincente nesso eziologico tra la condotta attiva o omissiva dei medici e il vulnus patito dal paziente.

Tanto per calare il concetto su un piano di concretezza, nel caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte si trattava di dimostrare il nesso tra l’operato dei medici e l’arresto cardiaco poi rivelatosi letale. A detta degli Ermellini, l’onere di provare tale collegamento grava sui creditori cioè su coloro (nella fattispecie in esame, gli eredi della vittima) che agiscono per chiedere il risarcimento del danno: “Il creditore deve provare il nesso di causalità fra l’insorgenza (o l’aggravamento) della patologia e la condotta del sanitario (fatto costitutivo del diritto)”. Questo vale a rammentarci che l’abituale e tralatizia concezione – nota a tutti gli operatori del settore – secondo la quale, nei casi di malasanità, il danneggiato ha solo l’onere di provare l’esistenza del contratto e il deterioramento della situazione originaria, deve essere sempre integrata da un altro imprescindibile requisito. Ossia, l’attore è tenuto anche a dimostrare la sussistenza del nesso di causa tra la condotta attiva od omissiva dei sanitari e l’evento dannoso.

Per utilizzare una terminologia giuridica, ciò significa che chi intraprende il giudizio dovrà farsi carico di dimostrare non solo la causalità giuridica (e cioè il collegamento tra l’evento pregiudizievole e le sue conseguenze dannose sotto forma di danno patrimoniale e/o non patrimoniale), ma anche la causalità materiale (cioè il rapporto tra la condotta dei pretesi autori dell’illecito e il detrimento che la vittima pretende di veder accollare a costoro).

Nel caso de quo era rimasto “incognito” (sotto il profilo della causalità materiale) proprio il fattore d’innesco dell’arresto cardiaco. Quindi, osserva la Corte, i giudici di secondo grado hanno deciso correttamente di respingere la domanda. Infatti, la lacuna sul piano probatorio riguardava il primo dei cicli causali anzidetti e cioè quello relativo al rapporto tra condotta dei sanitari e verificarsi dell’evento. L’onere di dimostrare tale “ciclo causale” gravava sulle spalle degli attori che non sono evidentemente riusciti nell’intento.

Veniamo, a questo punto, all’altro dei cicli causali; esso entra in gioco solo in un secondo momento e cioè allorquando l’attore abbia assolto al proprio onere preliminare. Tale ciclo concerne la prova che i sanitari sono stati impossibilitati ad adempiere la propria prestazione per l’insorgenza di un elemento “imprevedibile ed inevitabile” che ha, di fatto, “reso impossibile la prestazione (fatto estintivo del diritto)”. Tale ultimo ciclo pertiene in esclusiva ai medici e alla struttura sanitaria. In altre parole – laddove, al termine dell’istruttoria, l’attore abbia dimostrato il nesso tra la condotta dei medici e l’evento e il convenuto, per contro, non sia riuscito a portare la prova che la patologia è insorta per una causa imprevedibile e inevitabile idonea a rendere impossibile la corretta esecuzione dell’intervento –  le conseguenze, sul piano probatorio, ridonderanno a svantaggio di parte convenuta e non di parte attorea.

Quindi –  e sempre per tornare al fatto storico preso in esame dalla Cassazione con la pronuncia de quo – il fatto che i medici non abbiano dimostrato, nella circostanza, come si fosse determinato l’arresto cardiaco è stato (coerentemente con i presupposti teorici di cui sopra) ritenuto irrilevante. La convenuta ha vinto la causa perché gli attori non sono riusciti a farsi carico dell’onere che su di essi prioritariamente incombeva, sul piano probatorio: dimostrare che l’arresto cardiaco era riconducibile alla condotta dei sanitari. Se, e solo se, questa prova fosse stata fornita – e quindi se il primo ciclo causale fosse stato proficuamente “conchiuso” da parte degli attori –, soltanto allora i medici avrebbero potuto risultare soccombenti   per una eventuale carenza, da parte loro, rispetto al secondo ciclo causale; o, a dir meglio, per non aver portato una valida prova che l’arresto cardiaco era avvenuto per una ragione imponderabile e imprevedibile.

Nell’esaminare la sentenza in oggetto non possiamo esimerci dal rilevare come essa, a ben vedere, non sembri affatto rivoluzionaria nelle premesse. Infatti, i suoi estensori si sono limitati a ribadire i principii di corrente applicazione in tema di onus probandi in ambito civilistico e cioè quelli estrapolabili dagli artt. 40 e 41 del codice penale (riconducibili alla teoria della conditio sine qua non) temperati con l’altrettanto nota teoria della “causalità adeguata”.

Richiamiamoli per comodità del lettore.
Il principio della conditio sine qua non stabilisce che qualsiasi fattore cronologicamente antecedente ad un altro ne rappresenta la causa, o quantomeno la concausa, laddove sia possibile appurare – con un procedimento ex post di “ricostruzione” mentale –  che, in assenza del fattore antecedente, quello successivo (l’evento) non si sarebbe verificato.

Onde evitare degenerazioni distorsive di tale teoria, la stessa è stata opportunamente temperata dal concetto della “causalità adeguata” secondo il quale un fattore antecedente (anello di una catena di avvenimenti apparentemente consequenziali) può reputarsi causa di un altro solo a una condizione. Più precisamente, laddove ciò possa essere affermato secondo il criterio prudenziale dell’id quod plerumque accidit. E cioè in forza di un giudizio postumo che faccia apparire quale ragionevole e non, invece, del tutto implausibile, improbabile ed eccezionale l’evento medesimo rispetto alle “normali” prospettive e aspettative quali si presentavano, agli occhi del presunto colpevole, nel momento perfezionativo della di lui condotta attiva o omissiva.

Orbene, da questo punto di vista, potremmo addirittura affermare che la pronuncia de quo ha in qualche modo “alleggerito” l’onere della prova in capo agli attori danneggiati. Infatti, già prima dell’arresto in questione, essi erano tenuti a dimostrare il nesso causale tra la condotta dei sanitari e l’evento ai medesimi addebitato. E, proprio in ossequio ai principi testé richiamati dell’onere della prova in ambito civilistico, essi erano tenuti a dimostrare che la condotta dei medici era non solo un antecedente cronologico dell’evento, ma anche un antecedente logico e cioè non attribuibile ad un fattore imprevedibile; tale, insomma, da inficiare la sussistenza dei requisiti pretesi dalla surrichiamata teoria della causalità adeguata.

Ora, invece, alla luce della sentenza nr. 18392, sembra potersi affermare che vi sia stata una sorta di spaccatura sul piano degli oneri incombenti rispettivamente sull’attore e sul convenuto di una causa di malasanità. Come se all’attore spettasse solo l’onere di dimostrare che la condotta dei sanitari ha costituito un anello della catena di fattori adducenti all’esito infausto. Mentre sui convenuti graverebbe l’onere di dimostrare che l’infausto accadimento si situa sì, sul piano temporale, al termine di un’ordinata sequenza cronologica di atti, ma è, altresì, l’exitus dell’interferenza di un fattore estraneo (estintivo del diritto) tale da rendere impossibile la prestazione.

La pronuncia è meno convincente quando si sofferma sul criterio della “preponderanza dell’evidenza”, vale a dire sul principio noto come del “più probabile che non” notoriamente disciplinante l’onus probandi in ambito civilistico. A tal proposito, la Corte si limita a una petizione di principio, affermando cioè che non si deve fare “meccanico e semplicistico ricorso alla regola del cinquanta per cento plus unum”. Nulla da eccepire sul piano dei principii. Molto da eccepire, invece, sul piano delle conclusioni (negative per gli attori) che la Corte ne ha voluto trarre. Infatti, uno dei temi affrontati dai CTU, nel caso di specie, era stato quello della possibilità che un intervento di TURP potesse, o meno, evitare l’improvviso arresto cardiaco. I consulenti avevano concluso affermando che non vi erano “indicazioni certe che l’esecuzione di un intervento di TURP avrebbe evitato l’improvviso arresto cardiaco”. Non vi è chi non veda come questo fosse esattamente il crinale in grado di far pendere la bilancia del giudizio dalla parte degli attori. Era sufficiente interrogare i consulenti medesimi domandando loro se –  data ipoteticamente per effettuata l’esecuzione di un intervento Di TURP –  essa avrebbe potuto, con un grado di probabilità superiore al cinquanta per cento, evitare il decesso della vittima. Se la risposta a questa domanda fosse stata positiva l’accoglimento dell’altra domanda (quella di risarcimento) avrebbe dovuto costituirne – ci sia consentito il gioco di parole – una logica e doverosa conseguenza.Avv. Francesco Carraro – www.avvocatocarraro.it

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