La lettera di intervento inviata ‘per conoscenza’ basta e avanza

L’incubo degli avvocati specializzati in responsabilità civile automobilistica è, da sempre, la cosiddetta “lettera di intervento” ossia la diffida con la quale si intima a una compagnia di assicurazione il risarcimento del danno patito dalla vittima di un incidente stradale. Infatti, il mancato rispetto del termine perentorio di sessanta o novanta giorni (decorrente dall’inoltro di tale comunicazione) comporta l’effetto nefasto della pronuncia di una sentenza di rigetto della domanda in limine litis; proprio per irrimediabile carenza di un requisito di proponibilità della domanda.

Il problema si poneva già nel vigore della legge 990 del 1969, ma è stato vieppiù aggravato dalle riforme successive: se, in illo tempore, era sufficiente inviare una raccomandata di contenuto generico, per effetto delle integrazioni normative susseguenti il soggetto danneggiato e il suo procuratore sono stati gravati di un onere ben più articolato e complesso; esso si concreta nel dovere di predisporre, e inoltrare, tale missiva rispettando tutta una serie di requisiti contenutistici e formali, in mancanza dei quali il termine di cui sopra non può dirsi rispettato. Con tutte le conseguenti preclusioni succitate.

La situazione si è fatta ancor più delicata, per le vittime di incidenti, per effetto dell’introduzione del regime del cosiddetto risarcimento diretto.  In caso di danni materiali o di danni fisici micro-permanenti scaturiti dallo scontro tra due veicoli assicurati, l’avente diritto deve (rectius, può) rivolgere le proprie pretese in via giudiziaria – anzichè alla compagnia del mezzo avversario – all’impresa di assicurazione che garantisce il proprio veicolo. In tal caso, secondo il combinato disposto degli articoli 144, 145, 149 del decreto legislativo 209/2005, la diffida deve essere inviata a entrambe le compagnie.

Ora, come spesso accade quando le pastoie burocratiche diventano la regola anzichè l’eccezione, si sono fatte strada, nelle aule di giustizia, delle perverse interpretazioni di taglio squisitamente formalistico secondo le quali basterebbe una sia pur minima (e del tutto innocua) deviazione dal binario procedurale stabilito dalle norme testè citate per incappare nella tagliola di una sentenza di inammissibilità.

Un esempio su tutti: si è sostenuto, da taluni, che la raccomandata sia pour compiutamente redatta nel pieno rispetto di tutti i requisiti imposti dalla legge sarebbe inidonea al suo scopo nel caso venisse inviata alla compagnia avversaria solo “per conoscenza”.

Capite bene che stiamo parlando di una esegesi distorsiva, degna del peggiore azzeccagarbugli, rispetto alla  ratio innervante gli articoli di legge di cui trattasi.

Per fortuna, è intervenuta la Corte di Cassazione con la recentissima sentenza nr. 24.548 del 05.10.18,  con la quale è stata cassata una sentenza del Tribunale di Torino con l’enunciazione del seguente principio: “Una lettera inviata ‘per conoscenza’ è sufficiente a mettere in moto il meccanismo che poi consente al danneggiato di intraprendere l’azione giudiziaria contro l’una o l’altra impresa di assicurazione. I due commi dell’art. 145 D.lgs. 209/2005 rendono chiaro il disegno del legislatore: chi opta per il risarcimento diretto in sede stragiudiziale, deve informare anche l’impresa debitrice con la lettera raccomandata; ma se rivelatasi infruttuosa la trattativa, la vittima decide di convenire in giudizio l’assicuratore del responsabile, quella lettera che gli era stata inviata per conoscenza sarà sufficiente a rendere proponibile la domanda”.
Vi state chiedendo se era necessario scomodare il più altro organo giurisdizionale di cui dispone il nostro ordinamento processuale per enunciare una ovvietà come quella di cui alla enunciata massima? Non siete i soli.

Tuttavia dobbiamo farcene una ragione. In un periodo storico in cui pochissimi hanno da obiettare – di fronte ad autentiche mostruosità giuridiche avvallate in un clima di sopita rassegnazione –  è normale che l’ovvio diventi il terreno di sofisticate dispute sul sesso degli angeli. Proprio come nel medioevo insigni dottori di scolastica si accapigliavano sulla questione degli universali, dividendosi tra nominalisti e realisti.

Verrebbe da aggiungere, dinanzi al declino palese della qualità del dibattito delle scienze giuridiche: mala tempora currunt. Ma non è colpa del diritto e dei suoi cultori. Tali discipline, e chi le divulga, non fanno che riflettere il declino generalizzato (una autentica medievalizzazione di ritorno) cui assistiamo, in ogni settore del vivere, nei tempi che corrono.

Francesco Carraro

www.avvocatocarraro.it