La malpractice e la deresponsabilizzazione dei pazienti

La Corte di Appello di L’Aquila, con sentenza nr. 69 del 13.01.18 , ha affrontato la questione del consenso informato con precipuo riferimento al rapporto intercorrente tra un dentista e la di lui paziente la quale si era sottoposta a una serie di cure odontoiatriche consistenti nella rimozione di alcuni elementi dentari e nella loro sostituzione  con idonei sussidi protesici.

La sentenza del Tribunale di Vasto, in primo grado, aveva riconosciuto  la responsabilità del medico curante sulla base dell’assunto che il medesimo non avesse fornito una adeguata informazione alla paziente in ordine a tutte quelle cautele di carattere igienico che, applicate all’apparato orale della cliente, avrebbero evitato le conseguenze pregiudizievoli poi verificatesi. In altri termini, il medico era stato ritenuto responsabile e condannato per non avere dimostrato la prestazione di un regolare consenso informato da parte dell’attrice danneggiata. Il che potrebbe apparire paradossale se si considera che il consenso, nel caso di specie, concerneva una ordinaria abitudine afferente alla cura quotidiana della propria persona considerabile alla stregua di un fatto notorio.

È  arduo, infatti, poter credere che vi siano individui la cui ignoranza si spinge fino al punto di non avere cortezza neppure di quelle minime norme di igiene orale (dall’utilizzo degli spazzolini e del dentifricio all’impiego dei colluttori normalmente in commercio) finalizzate alla “manutenzione dell’apparato masticatorio”.

Non a caso il CTU medico-legale incaricato dal giudice di prime cure aveva avuto modo di evidenziare che –  pur mancando nella cartella clinica la menzione della somministrazione di un adeguato consenso  informato – doveva ritenersi che il ruolo dell’igiene orale rientrasse nei “percorsi verbali”, nella banale precettistica  da ambulatorio per così dire, usualmente praticati in uno studio odontoiatrico e non necessariamente riportati, proprio per la loro “scontata” utilità, nel diario delle prestazioni rese.

Eppure la Corte d’Appello ha confermato le ragioni della paziente convalidando la sentenza di condanna del risarcimento del danno patrimoniale in ossequio ad una corretta applicazione dei principi dell’onus probandi vigenti in ambito di malpractice secondo i quali: “ai fini del riparto dell’onere probatorio, l’attore – paziente danneggiato –  deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato etiologicamente rilevante”.

La pecca inescusabile del medico, nella fattispecie, è consistita nel non aver redatto in maniera scrupolosa, puntuale e diligente la cartella clinica, omettendo di esplicitare nel modulo di consenso, pur sottoscritto dalla cliente, le informazioni relative non già e non solo all’ordinaria pulizia dei denti con lo spazzolino e il filo interdentale (precauzioni non bisognose di particolari esplicazioni stante la loro universale notorietà), ma anche all’utilizzo di peculiari presidi meccanici (quali lo spazzolino elettrico e l’idropulsore orale) e chimici (quali i colluttori e i gel antibiotici).

Il medico convenuto non ha dimostrato –  quindi non ha supplito attraverso mezzi istruttori succedanei rispetto alla mera esibizione del modulo prestampato del consenso – di aver informato la paziente della dirimente importanza di sottoporsi ogni giorno a lavaggi e ad abluzioni effettati  con l’ausilio di opportuni strumenti, vieppiù indispensabili attesa la scarsa propensione della donna alla igiene orale.

In conclusione, possiamo impiegare la pronuncia in commento come un utile promemoria per tutti coloro i quali si trovino coinvolti in un caso di malpractice da una parte o dall’altra della barricata: il consenso informato non solo deve essere dimostrato mercè la produzione in giudizio di un atto scritto, in ossequio a quanto previsto dalla più recente giurisprudenza di legittimità in materia, ma deve anche concretarsi in una pluralità articolata e comprensibile di spiegazioni dettagliate in ordine a tutti i passaggi della prestazione sanitaria e a tutte le possibili controindicazioni nonché a tutte le necessarie cautele idonee a minimizzare i rischi connessi all’intervento e i danni collaterali del medesimo.

Non nascondiamo che una tale impostazione, pur condivisibile nella sua ratio di fondo, rischia di trasformarsi in un’arma a doppio taglio laddove non declinato cum grano salis sul piano pratico, così da tradursi in una ‘burocratizzazione paranoica’ degli adempimenti al rispetto dei quali un medico deve essere ragionevolmente tenuto. E così da trattare il paziente alla stregua di un minus quam bisognoso anche di informazioni offensive per la sua intelligenza. Seguendo questa strada, sul piano ermeneutico (della giurisprudenza e della dottrina) e metodologico (della prassi clinica), non riteniamo si faccia né l’interesse della classe medica né quello dei pazienti.

Avv. Francesco Carraro

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