La probatio (diabolica) della sofferenza morale nei danni mortali
Con l’ordinanza numero 9.196 del 13 aprile 2018 la Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi del tema dei pregiudizi di natura non patrimoniale patiti dai prossimi congiunti ed eredi della vittima primaria di un sinistro mortale.
Nella fattispecie, trattavasi di un sinistro risalente agli anni Novanta in occasione del quale aveva trovato la morte un padre di famiglia e la di lui consorte la quale aveva agito (in proprio e in qualità di genitore di due figlioli) per ottenere il risarcimento dei conseguenti danni patrimoniali e non patrimoniali. La sentenza d’appello aveva limitato il risarcimento del danno di natura non patrimoniale evitando di liquidare quella parte di ristoro che, usualmente, viene riconosciuta a titolo di risarcimento delle compromissioni lato sensu esistenziali cioè afferenti al vulnus arrecato (dall’omicidio colposo) ai rapporti intercorrenti tra il soggetto deceduto e i suoi familiari.
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso proposto dalla moglie e dai figli della vittima, ribadendo alcuni principi che dovrebbero, oramai, costituire jus receptum e consolidato punto di riferimento per tutti i giudici di merito e che, invece (purtroppo), spesso vengono inopinatamente disattesi. Sostanzialmente, la Suprema Corte ha rammentato il contenuto delle celebri sentenze di San Martino del 2008 con le quali i giudici di legittimità hanno stabilito che i danni di natura non patrimoniale costituiscono un’unica macro categoria che può essere oggetto di risarcimento ogni qualvolta ricorrano i presupposti di cui all’articolo 2059 del codice civile. Tali presupposti ricorrono allorquando vi sia la lesione di un diritto costituzionalmente garantito ovvero nelle ipotesi in cui vi sia una esplicita previsione normativa atta a legittimare il ristoro del suddetto pregiudizio (come accade, giusta proprio il richiamo contenuto nella prefata norma, in ogni caso di illecito penale).
I danni non patrimoniali, poi, possono essere scomposti, sul piano meramente descrittivo – senza che ciò valga a metterne in discussione l’unitarietà concettuale di segno giuridico – , in tre ampie voci corrispondenti a: pregiudizi di natura biologica, pregiudizi di natura morale e pregiudizi di natura esistenziale intese come infra si dirà.
Con l’ordinanza in commento, la Corte di Cassazione ha sottolineato, per l’ennesima volta, che la incontestabile unitarietà del danno di natura non patrimoniale non deve andare a detrimento di una dettagliata ed esaustiva liquidazione che si riferisca a ciascuna delle tre voci testé richiamate. Vero è che i giudici devono evitare in tutti modi le indebite locupletazioni. Tuttavia, essi sono anche tenuti a non trascurare il risarcimento di ogni singolo pregiudizio lamentato dai danneggiati con riferimento alla dimensione non patrimoniale. Andranno, quindi, risarcite sia le conseguenze di natura psicofisica ridondanti in una menomazione dell’integrità della persona (alle quali viene attribuita la denominazione convenzionale di ‘danno biologico’) sia le conseguenze di carattere interiore (sub specie di soggettiva e transeunte sofferenza) che usualmente vengono definite alla stregua di ‘danno morale’ sia le conseguenze che si esplicitano sul piano dinamico-relazionale designate, in gergo, come pregiudizio di natura esistenziale.
Erra, pertanto, il giudicante di secondo grado, nel caso di specie, nel momento in cui riconosce un ristoro per il danno non patrimoniale di carattere biologico e per quello di carattere morale omettendo poi di prendere in considerazione gli impatti che il fatto illecito ha avuto sulla vita dei prossimi congiunti, nonché eredi, del soggetto defunto. Ciò significa che tutte le volte in cui una parte abbia diligentemente chiesto, in ossequio al principio dispositivo che governa le azioni processuali in ambito civilistico (e in seguito a un sinistro mortale) tutti i singoli profili di danno non patrimoniale di cui alla ‘trilogia’ summenzionata, e una volta che essa abbia diligentemente allegato (e offerto di dimostrare) tali pregiudizi in sede istruttoria, è del tutto illegittima la decisione del magistrato che si limiti, per ipotesi, a liquidare solo una somma a titolo di risarcimento per le sofferenze morali patite in seguito al lutto senza, invece, prendere in considerazione anche quelle di natura dinamico-relazionale, id est ‘esistenziale’ (ovvero quelle di natura biologica, anche se più rare a verificarsi).
È, infatti, del tutto ovvio che un evento drammatico (qual è il decesso di una persona in occasione di un incidente stradale) comporta due tipi di conseguenze: da un lato, i familiari sono costretti a sperimentare quel ‘crudo dolore’ (come è stato definito dalla Cassazione nell’ordinanza de quo) che connota ogni improvvisa scomparsa di una persona cara, dall’altro essi si trovano nella condizione di non poter più godere di tutta una serie di attività connesse alla dimensione relazionale che prima, invece, abitualmente erano avvezze a condividere (insieme al congiunto strappato loro da un brutale destino).
Potremmo dire, in un certo senso, che il danno non patrimoniale, nell’ipotesi di decesso, comporti un vuoto di natura interiore e un vuoto di natura esteriore, entrambi incolmabili. Il primo attiene alla dimensione intima, soggettiva, insondabile e intangibile che riguarda specificamente la sfera ‘spirituale’ del familiare rimasto in vita. Egli soffre, e soffre nell’anima, perché non ha più accanto se è la persona che amava. Nello stesso tempo, il sopravvissuto è vittima di un vuoto esteriore che si concreta nella improvvisa estinzione di tutte quelle circostanze di gioiosa convivenza e quotidiana complicità nel corso delle quali (e grazie alle quali) egli si trovava a spartire le gioie, le occupazioni, le minute faccende di ogni menage familiare.
Orbene, se da un lato la pronuncia degli Ermellini è apprezzabile nella misura in cui impedisce che il risarcimento delle vittime di gravi sinistri mortali sia, ci si passi il termine, ‘monco’, d’altro canto sarebbe più che mai opportuno un arresto giurisprudenziale che si soffermasse su un altro tema sovente trascurato nella materia di cui ci stiamo occupando.
Ci riferiamo alla dimensione della prova del danno non patrimoniale. Riteniamo che dovrebbero essere valorizzati (molto più di quanto già non avvenga) i dati di comune esperienza secondo i quali – e ciò vale per il giurista come per uomo della strada (trattandosi di un’intuizione comune a qualsiasi persona di buonsenso) – chi incorre in una tragedia, soffre. E tanto più si soffre quanto più egli sia legato alla vittima da una relazione duratura. Ciò significa che, di fronte alle inoppugnabili risultanze dei certificati anagrafici che attestano la sussistenza di una coabitazione (tra le parti della tragedia) e la durata della stessa, il risarcimento dovrebbe essere riconosciuto a prescindere da ogni altra considerazione. E a prescindere, soprattutto, dalla pretesa ridicola – in situazioni come quelle di cui ci stiamo occupando – consistente nell’esigere che gli attori (già devastati da un trauma) dimostrino l’indimostrabile. Si assoggettino, cioè, a quell’autentica probatio diabolica che si concreta nel dover attestare l’intensità dell’amore che li univa a chi è mancato ai loro affetti.
Si rischia, altrimenti, di costringere i difensori a un cimento impossibile: quello di avvalorare (con l’insufficiente armamentario consueto offerto dagli ordinari mezzi istruttori) una circostanza tipicamente non suscettibile di essere ‘toccata con mano’ come il sentimento.
Ciò spesso comporta, in ambito processuale, due effetti collaterali parimenti deprecabili: il primo è che il capitolato istruttorio (articolato dal difensore) viene sistematicamente ‘cassato’ dal giudice di turno sulla base dell’assunto che esso si struttura in domande implicanti giudizi non ammessi ai testi; e come potrebbe essere altrimenti? Un rapporto amoroso, confidenziale, fraterno, materno, paterno, per ‘elezione’ è riscontrabile solo attraverso l’espressione di un giudizio e non certo attraverso un riscontro di fatto. L’altro effetto perverso di tali dinamiche processuali è che la domanda della parte (in assenza di prove) viene ridotta ai minimi termini con la scusa che gli attori non avrebbero fornito la dimostrazione del loro dolore.
Sarebbe ora di considerare l’opportunità di un nuovo approccio alla questione, strutturato in maniera antitetica rispetto a quella attuale: nel momento in cui l’attore fornisce gli elementi minimi indispensabili per presumere che ci sia stata la logica, inevitabile, notoria sofferenza destinata ai superstiti di un lutto (in quanto esseri umani), dovrebbe essere onere della controparte dimostrare il contrario facendo ricorso per esempio ad altre circostanze di fatto idonee a innescare le correlate presunzioni (questa volta a svantaggio di chi domanda il risarcimento): ad esempio, l’esistenza di sussidi insanabili o di ‘distanze’ incolmabili (in senso lato: sia di carattere cronologico, come accade quando due soggetti non coltivano più alcun rapporto da lungo tempo, sia di carattere geografico, come accade quando le parti vivono a grande distanza l’una dall’altra).
Si dovrebbe esigere, invece, un compiuto articolato istruttorio solo con riferimento a quello che, sopra, abbiamo definito come ‘vuoto esteriore’ e cioè la componente dinamico-relazionale del rapporto vulnerato dal sinistro.
Avv. Francesco Carraro
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