La responsabilità professionale medica
La responsabilità professionale medica trova la sua fonte nel contratto che qualsiasi paziente stipula con l’ente sanitario al momento del suo ingresso nello stesso per riceverne le cure: “in ipotesi di non corretta esecuzione della prestazione professionale medica, eseguita in struttura sanitaria pubblica, ne rispondono a titolo di responsabilità contrattuale sia l’ente ospedaliero, gestore di un servizio pubblico sanitario, sia il medico dipendente” (Cass. 12233/98; cfr. Cass. 2144/93 e 5939/93). E’ stato ribadito dalla giurisprudenza di legittimità che quanto alla responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente, è irrilevante che si tratti di una casa di cura privata o di un ospedale pubblico, in quanto a livello normativo gli obblighi verso il fruitore di servizi sono sostanzialmente equivalenti. Non sussiste dunque alcuna differenza quanto al regime di responsabilità civile trattandosi di violazioni che incidono su diritti fondamentali dell’uomo tutelati dalla costituzione, in particolare il diritto alla salute sancito dall’art. 32 cost. la cui tutela non può trovare limitazioni di responsabilità o differenze risarcitorie che si basino sulla natura pubblica o privata dell’ente che fornisce la prestazione sanitaria ( cfr. cass.civ. 4058/05). Proprio in forza del rapporto contrattuale che si instaura con il paziente, l’ente, sia esso pubblico o privato, risponde ex art. 1228 c.c., anche dei fatti dolosi e colposi cagionati dai suoi sottoposti e dipendenti. Come hanno ribadito in una recente pronuncia le Sezioni Unite della Cassazione: “tra il paziente ed il medico dipendente si instaura un contatto sociale, il cui inadempimento è sottoposto al regime di cui all’art. 1218 c.c.” (Cass. civ., S.U., 11.01.08, n. 577). In ossequio alle norme che disciplinano l’inadempimento contrattuale, si verifica nella fattispecie un’inversione dell’onere della prova a carico della convenuta giusta il disposto dell’art. 1218 c.c. per cui al paziente spetta di allegare l’inesattezza dell’inadempimento, ma non certo la colpa. Spetta ai sanitari dimostrare che l’inadempimento è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a loro non imputabile e quindi, in buona sostanza, la loro assenza di colpa: “In tema di responsabilità professionale del medico-chirurgo, sussistendo un rapporto contrattuale (quand’anche fondato sul solo contatto sociale), in base alla regola di cui all’art. 1218 c.c. il paziente ha l’onere di allegare l’inesattezza dell’inadempimento, non la colpa né, tanto meno, la gravità di essa, dovendo il difetto di colpa o la non qualificabilità della stessa in termini di gravità (nel caso di cui all’art. 2236 c.c.) essere allegata e provata dal medico” (Cass. sez. III, 24 maggio 2006, n. 12362). Va, peraltro, rilevato anche che l’eventuale particolare semplicità delle prestazioni che sono al personale medico delle strutture convenute, rendono inapplicabile la limitazione di responsabilità del professionista alle ipotesi di dolo o colpa grave di cui all’art. 2236, comma 2, c.c.. La responsabilità dei sanitari andrà, dunque, valutata con riferimento alla diligenza professionale di cui all’art. 1176, comma 2, c.c.. Del resto la tradizionale distinzione operata tra interventi di facile esecuzione ed interventi di particolare difficoltà non rileva più come criterio di ripartizione dell’onere probatorio, ma potrà, semmai, essere utilizzata al fine di valutare il grado di diligenza ed il corrispondente grado di colpa, restando comunque a carico del medico la prova che la prestazione implicava la soluzione di problemi tecnici particolarmente difficili. Ciò significa, in altre parole, sempre sotto il profilo dell’onus probandi, che, sia che si tratti di intervento routinario, sia che si tratti di intervento di peculiare difficoltà, in ossequio a quanto disposto dall’art. 1218 c.c.: “il paziente che agisce in giudizio deducendo l’inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria deve provare il contratto e allegare l’inadempimento del sanitario restando a carico del debitore l’onere di provare l’esatto adempimento” (Cass. 10297/2004). Non solo: essendo l’obbligazione dei sanitari un’obbligazione di mezzi, l’inadempimento coincide con il difetto di diligenza nell’esecuzione della prestazione.
Pertanto “il paziente dovrà provare l’esistenza del contratto e l’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento, restando a carico del sanitario o dell’ente ospedaliero la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esisti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile” (Cass. 9471/2004). In ordine alla responsabilità extracontrattuale, essa sussiste ex art. 2043 c.c. in presenza di un fatto doloso o colposo che abbia cagionato a terzi un danno ingiusto. In ambito di responsabilità professionale medica, tale responsabilità trova diretta applicazione anche nei confronti della struttura sanitaria da cui dipendano i soggetti che a qualsiasi titolo e in qualsivoglia modo abbiano cagionato il danno. In altre parole, detta responsabilità e il correlato onere risarcitorio sussistono sia quando l’evento è derivato da fatto proprio dell’ente (ovverossia fatto della sua dirigenza), sia, ex art. 2049 c.c. quando l’evento è derivato da fatto dei dipendenti (salvo il diritto di rivalsa di quest’ultima ove ne ricorrano i presupposti) (Cass. pen. 1386/99, Trib. Roma 27.1198): “Ed inoltre, stante la configurabilità oggettiva anche degli estremi di un reato ove la menomazione dell’integrità psicofisica si renda riconducibile ad un comportamento colposo, la conseguente estensione della responsabilità anche al danno morale (art. 2059 c.c. e art. 185 c.p.) si configurerà anche a carico del soggetto (pubblico o privato) gestore della struttura sanitaria, costituendosi a criterio di imputazione (rispettivamente sulla base degli art. 28 cost. e 2049 c.c.) la circostanza che l’attività sanitaria rivolta all’adempimento del contratto sia stata svolta dalle persone, inserite nella propria organizzazione, di cui il gestore si sia avvalso per renderla.” (Cassazione civile , sez. III, 01 settembre 1999, n. 9198).
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