Le “nuove” sentenze gemelle della Cassazione sulla compensatio lucri cum damno
A distanza di dieci anni dalle celeberrime sentenze di San Martino, dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione ecco un nuovo “parto” quadri-gemellare destinato ad altrettanta e duratura celebrità rispetto a quella toccata al precedente di due lustri or sono.
Ci riferiamo alle quattro sentenze rese in data 22.05.2018 e recanti i numeri 12.564, 12.565, 12.566, e 12.567 che hanno affrontato il tema della cosiddetta compensatio lucri cum damno. Ovverossia, di tutti quei casi in cui, da un determinato evento, discendono – a beneficio e a danno del medesimo destinatario – effetti, nel contempo, benefici e pregiudizievoli.
Le pronunce in questione erano attese con ansia da tutti gli operatori del settore i quali, da quasi un anno (le ordinanze di rimessione risalgono, infatti, al 22.06.2017) attendevano il fatidico verdetto destinato a impattare in maniera significativa sia sulle legittime aspettative risarcitorie delle vittime dei sinistri stradali (e non solo) sia sulle casse (certamente non esangui) delle compagnie del comparto assicurativo.
Per capire l’importanza della questione, è sufficiente ricordare lo scalpore suscitato dalla cosiddetta “sentenza Rossetti” con la quale, un paio d’anni fa, la Suprema Corte aveva sancito il principio per cui – dall’importo ricevuto a titolo di risarcimento – il danneggiato avrebbe dovuto defalcare quanto ottenuto in forza di indennizzo erogato in base a una polizza infortuni.
Ora, la prima sensazione cui bisogna resistere nell’affrontare le pronunce del 22 maggio è quella di compiere una valutazione sommaria che accomuni indiscriminatamente i quattro casi diversi affrontati dagli Ermellini.
Se è ben vero che, dalle pronunce in commento, è estrapolabile una ratio comune, è altrettanto vero che le fattispecie trattate in concreto dalla Cassazione sono sufficientemente diverse e distinte, l’una dall’altra, da meritare (ciascuna) un approfondimento monografico.
Per la precisione, la sentenza 12.564 si è occupata della potenziale sovrapposizione tra la somma ricevuta (a titolo di risarcimento del danno patrimoniale) dal familiare di una persona deceduta e il valore capitale della pensione di reversibilità accordata dall’INPS al medesimo soggetto in conseguenza della morte del proprio congiunto.
La sentenza 12.565 (che si è occupata della tragedia di Ustica) ha risposto al quesito se il danno da fatto illecito debba essere, o meno, liquidato sottraendo dall’ammontare della posta risarcitoria l’importo discendente dalla indennità assicurativa dovuta al danneggiato assicurato giusta polizza infortuni da quest’ultimo stipulata.
La sentenza 12.566 riguarda, invece, la possibilità di defalcare dalla rendita ottenuta dal lavoratore infortunato (per l’inabilità permanente) grazie agli “ammortizzatori sociali” vigenti, l’ammontare del risarcimento posto, per il medesimo titolo, a carico del responsabile del fatto illecito.
Infine, la sentenza 12.567 si è chiesta se – dal risarcimento del danno patrimoniale per l’assistenza necessaria (vita natural durante) a beneficio di un neonato (la cui salute sia stata irrimediabilmente compromessa da un caso di malpractice medica) – debba essere scomputato il valore capitalizzato della indennità di accompagnamento ottenuta dalla vittima in conseguenza di quel fatto e alla medesima erogata dall’INPS.
Cominciamo con il dire che il principio guida – la bussola ermeneutica, per così dire, – messa a disposizione dalla Sezioni Unite (e impiegabile in tutti i casi testè menzionati) è quella del “criterio funzionale”.
Ciò significa che il principio della compensatio potrà e dovrà essere applicato solo quando i benefici “lucrati” dalla vittima abbiano lo stesso nesso funzionale; cioè, siano destinati al medesimo scopo consistente nel ristorare la vittima delle conseguenze pregiudizievoli patite per effetto del fatto illecito del terzo. Altrimenti detto, il criterio discriminante per stabilire se due distinte erogazioni possano, oppure no, sommarsi a buon pro del medesimo destinatario, non bisogna guardare tanto al titolo (differente o meno) da cui le stesse scaturiscono. Bisognerà, semmai, passare al vaglio, con il dovuto scrupolo, la funzione dei titoli in forza dei quali la vittima è stata beneficata.
La Corte sottolinea quanto segue: “Affidare i criteri di selezione (tra i casi in cui ammettere o negare il cumulo) all’asettico utilizzo delle medesime regole anche per il vantaggio finisce per ridurre la quantificazione del danno ad una mera operazione contabile trascurando così la doverosa indagine sulla ragione giustificatrice della attribuzione patrimoniale entrata nel patrimonio del danneggiato”.
Al contrario, onde individuare un corretto criterio di selezione, è necessario guardare alla funzione di cui al beneficio collaterale, onde accertare se esso sia compatibile o meno con una imputazione al risarcimento.
Proprio alla luce dei succitati principi, discende, per logica e coerente conseguenza, che la pensione di reversibilità non potrà mai essere scomputata dal danno patrimoniale sofferto dal familiare di un soggetto deceduto per colpa altrui.
Infatti, la pensione di reversibilità (che appartiene al più ampio genus delle pensioni ai superstiti) è una forma di tutela previdenziale in cui l’evento protetto è la morte, cioè un fatto naturale che, per presunzione legislativa, genera uno status di bisogno in capo ai familiare del defunto.
Ergo, per l’ordinamento, la pensione di reversibilità è uno strumento finalizzato a un interesse superiore della collettività destinato a sgravare i cittadini dai bisogni conseguenti a un lutto e a garantire loro quelle minime condizioni economiche e sociali indispensabili a garantire il godimento dei diritti civili e politici ex art. 3 della Costituzione, nonchè lo specifico diritto dei lavoratori al trattamento preferenziale (rispetto alla generalità dei cittadini) ai sensi e per gli effetti dell’art. 38 della nostra Carta fondamentale.
Per andare al nocciolo della questione, si può sintetizzare il tutto affermando che l’erogazione della pensione di reversibilità non è geneticamente connotata dall’obbiettivo di rimuovere le conseguenze dannose, sotto il profilo patrimoniale, prodottesi in capo al danneggiato per effetto del fatto illecito altrui. La pensione di reversibilità non ha una finalità indennitaria, ma costituisce, semmai, l’adempimento, da parte dell’ordinamento, di una promessa nei confronti del lavoratore assicurato (e deceduto) il quale aveva sacrificato una quota parte del proprio reddito per alimentare la propria posizione previdenziale.
La ragione giustificatrice di tale indennità non permette, pertanto, di scomputare gli importi ricevuti a titolo di pensione di reversibilità da quanto corrisposto dal responsabile del danno proprio perché i “disegni attributivi causali” (per usare il gergo della Suprema Corte) delle due fattispecie sono completamente diversi.
Infine – sottolineano gli Ermellini – non esiste neppure sul piano del diritto positivo alcuna norma che garantisca all’ente previdenziale un’azione di surrogazione rispetto a tale pensione di reversibilità: infatti, la surrogazione di cui all’art. 1916, comma quarto si applica solo alle assicurazioni sociali contro gli infortuni sul lavoro, mentre l’art. 14 della legge 222 del 12.07.1984 prevede una surroga per le prestazioni in tema di invalidità pensionabile non omologabili alle pensioni di reversibilità.
Avv. Francesco Carraro
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