Lo stato dell’arte in materia di malpractice secondo il Tribunale di Firenze

Ogni tanto è opportuno fare il punto sul tema della responsabilità professionale medica, soprattutto in presenza di nuove sentenze che pregevolmente riepiloghino  le caratteristiche della materia de quo. Nel caso affrontato dal Tribunale fiorentino con la sentenza nr. 335 del 05.02.18, si verteva in ordine alla controversia instaurata dalla figlia, nonché erede, di una paziente dell’azienda sanitaria di Firenze. La madre dell’attrice era deceduta in seguito a una perforazione intestinale asseritamente riportata per effetto degli esami (colonscopia e clisma opaco) svolti sulla stessa ad opera dei sanitari del nosocomio in cui la donna era stata ricoverata.

La pronuncia in questione ha, innanzitutto, rammentato come la responsabilità professionale medica   vada inquadrata nell’alveo della cosiddetta responsabilità di natura contrattuale e sia definibile come “contratto di specialità”: un contratto atipico che sorge, e  intercorre, tra il paziente di qualsiasi struttura e la struttura medesima all’atto della presa in carico del primo da parte della seconda. Tale contratto ha per oggetto sia le prestazioni di carattere squisitamente medico sia quelle accessorie come, ad esempio, l’utilizzazione dei servizi, la manutenzione dei macchinari e le prestazioni di vitto e alloggio conseguenti al ricovero ospedaliero.

Si configura, invece, come responsabilità contrattuale da “contatto sociale” quella intercorrente tra i sanitari dipendenti di una struttura ospedaliera e il paziente. Come noto, trattasi di una categoria di creazione giurisprudenziale oramai obsoleta in seguito all’entrata in vigore della legge che ha ridisegnato il sistema della RC-medica: la ‘Gelli-Bianco’ dell’aprile 2017. La riforma ha definitivamente configurato come connotata dal crisma della extra-contrattualità la responsabilità dei singoli sanitari salvo il caso in cui essi abbiano stipulato uno specifico accordo con il paziente.

Detto questo, va aggiunto che, nell’ambito della responsabilità professionale medica, incombe sul paziente danneggiato che agisca contro la struttura sanitaria l’onere di provare la sussistenza del contratto e l’aggravamento della situazione patologica (ovvero l’insorgenza di nuove patologie, rispetto a quelle già note, che sono conseguite all’intervento prestato dai sanitari della struttura convenuta in giudizio). L’attore dovrà anche dimostrare che il contegno attivo od omissivo dei sanitari è stato astrattamente idoneo a generare il danno lamentato. Questo significa che, sul paziente danneggiato, non incombe invece l’obbligo di dimostrare la colpa dei sanitari convenuti.

Per contro, spetta invece alla struttura sanitaria, proprio in ossequio ai caratteri tipici della malpractice, provare che la prestazione professionale è stata eseguita in modo impeccabile e che gli esiti negativi sono frutto di un evento imprevisto, imprevedibile e non riconducibile alla condotta negligente o imperita dei medici. In altri termini, la struttura sanitaria dovrà dimostrare che il danno si è verificato senza la ricorrenza di una colpa, di qualsivoglia tipo, in capo ai medici curanti.

Inoltre, l’articolo 2236 del codice civile – nella parte in cui prevede che la sussistenza, nel caso concreto, di problemi di speciale difficoltà involge responsabilità solo in ipotesi di colpa grave – incide solo sulla valutazione del grado della diligenza richiesta. Non incide, per converso, sulla ripartizione dell’onere probatorio sopra delineato. In ogni caso,  la prova della particolare difficoltà della prestazione compete ai sanitari che la deducono.

La pronuncia in commento ha anche evidenziato come l’articolo 3 del decreto legge 158 del 2012, così come modificato dalla legge di conversione 189-12 meglio noto come “decreto Balduzzi” (oggi abrogato dalla legge di riforma Gianni Bianco), non aveva apportato sostanziali modifiche alla struttura della responsabilità professionale medica così come dianzi illustrata. Infatti, con il riferimento all’articolo 2043 del codice civile e quindi al concetto di responsabilità aquiliana, contenuto nel decreto Balduzzi, il legislatore non intendeva qualificare la responsabilità dei medici come necessariamente extra-contrattuale. La questione, peraltro, risultata superata alla luce della legge di riforma di cui sopra.

La sentenza si sofferma anche sul concetto di “complicanza”. Nel caso di specie, infatti, all’esito di due esami eseguiti sulla paziente, poi deceduta, non era risultato (stando ai referti) che si fosse verificata una perforazione dell’intestino. La lesione  era emersa solo in un momento successivo e la struttura sanitaria si era difesa mettendo in campo proprio il concetto di “complicanza”.

I giudici del capoluogo toscano hanno richiamato, in proposito, il noto arresto della Cassazione del 2015 con il quale gli ermellini si sono soffermati proprio sulla differenza del concetto di complicanza in ambito clinico e in ambito giuridico: la nozione di complicanza nel primo caso non coincide con il concetto giuridico di “causa non imputabile”. Infatti, la complicanza, dal punto di vista medico, è un evento prevedibile ma non evitabile di un intervento o di un trattamento terapeutico. La causa non imputabile, invece, è un evento non prevedibile e non evitabile che esclude la responsabilità del creditore. Ne discende che – anche se la letteratura medica non lo annovera tra le complicanze – un evento che non sia prevedibile e non sia evitabile costituisce sempre e comunque una “causa non imputabile” del verificarsi dell’evento diverso. Analogamente, un evento che sia prevedibile ed evitabile non vale a “scriminare” la condotta dei sanitari sul piano della responsabilità civilistica e ciò quand’anche esso sia descritto come complicanza statisticamente frequente di un determinato intervento. Ciò significa che la prova della prevedibilità e inevitabilità del danno non può fermarsi a un piano meramente teorico, statistico e astratto, ma deve calarsi nel concreto della vicenda che il giudice si trova ad affrontare e a dover risolvere. Questo concetto è spesso sottovalutato, addirittura misconosciuto, nelle vicende processuali che riguardano i casi di malpractice medica. Non è raro imbattersi in linee difensive che fanno leva proprio sul concetto di complicanza medica per difendere i convenuti di un’azione risarcitoria. Ebbene, trattasi di una difesa debole perché, come anzidetto, vi può ben essere  un fatto qualificato dalla letteratura medica come complicanza che, tuttavia, in quanto prevedibile ed evitabile, non esclude la responsabilità dei creditori.

La sentenza, poi, si sofferma su un altro aspetto molto interessante che è quello della quantificazione del danno biologico a favore di un soggetto il quale sia deceduto per cause diverse rispetto a quelle costituite dal comportamento negligente dei sanitari. Essa si rifà al metodo del tribunale di Roma il quale ha sottolineato come il risarcimento del danno biologico (nei casi in cui la morte sia conseguita dopo un certo tempo e prima della data della prevedibile durata media di vita del soggetto danneggiato) il danno dovrà conseguentemente essere diminuito. Infatti, se il danno biologico consiste nella compromissione di una “parte” della salute, esso non può dar luogo allo stesso risultato risarcitorio nel caso in cui questa perdita sia stata patita solo per alcuni mesi o, invece, per parecchi anni o, addirittura, per tutta la restante durata della vita media.

Veniamo, infine, al tema del consenso informato. Nella fattispecie, la figlia della paziente danneggiata aveva allegato la circostanza che alla madre non erano state fornite  puntuali e idonee informazioni tali da consentirle di liberamente determinarsi in ordine alle opzioni sul tappeto.

Però, era presente, in atti, un documento prodotto dalla convenuta dal quale risultava che la paziente aveva acconsentito (sia pure con il ricorso a clausole di stile prestampate) alla sottoposizione agli esami di colposcopia e di clisma opaco. Tuttavia, ciò che non è stato dimostrato è il fatto che i sanitari avessero compiutamente ed esaurientemente informato la donna rispetto ai rischi ai quali ella si esponeva con il sottoporsi subito, dopo la colonscopia, all’esame di clisma opaco. Rispetto a questo aspetto, mancava la documentazione scritta del consenso e la prova non poteva essere raggiunta in modo diverso visto che l’esame testimoniale richiesto dalla convenuta struttura prevedeva l’escussione degli stessi medici che avevano effettuato il trattamento. La loro dichiarazione non avrebbe, pertanto, potuto considerarsi come attendibile proprio per l’irrimediabile conflitto di interessi che l’avrebbe contraddistinta. In applicazione della regola di riparto dell’onus probandi, in caso di contestazione da parte del paziente della sussistenza di adeguato consenso informato, grava sui sanitari della struttura sanitaria il compito di dimostrare di aver fornito le indicazioni indispensabile per una scelta libera e consapevole. La convenuta aveva eccepito il fatto che fosse onere dell’attrice dimostrare che (laddove ella avesse conosciuto i rischi a cui si sottoponeva, si sarebbe determinata in un modo diverso). Il Tribunale Firenze, invece, ha sottolineato come tale prova debba essere fornita dal paziente solo in un caso: quando ci sia stato un inadempimento dell’obbligo formativo con  un conseguente peggioramento della salute non prevedibile nonostante la corretta esecuzione dell’attività per terapeutica. Nel caso in cui, invece, l’informazione sia stata omessa e ne sia conseguito un danno imputabile a colpa professionale, la mancanza del consenso informato si inserisce nella serie causale produttiva del danno patrimoniale e, quindi, non sarà necessaria la prova che il paziente (ove informato) avrebbe declinato il proprio consenso.

Avv. Francesco Carraro

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