Nessuna pietà per chi muore troppo in fretta
La Corte di Cassazione ha affrontato, con la sentenza n. 4208 del 17.02.2017, una problematica di grande pregnanza e attualità, involgente una serie di questioni correlate a un tema oggi apparentemente di gran moda quale il cosiddetto ‘fine vita’.
Tanto in ambito mediatico e giornalistico quanto in ambito politico e giuridico, per ‘fine vita’ si intende la porzione terminale dell’esistenza umana. Rispetto ad essa, il legislatore è sollecitato da più parti a introdurre norme volte a consentire una auto-regolamentazione del processo di accostamento alla morte così da rendere quest’ultima – se non proprio dominabile – quantomeno ‘gestibile’ in prima persona dal soggetto interessato, nei limiti delle sue pur residue capacità psicofisiche oppure attraverso idonee disposizioni redatte a tempo debito e a futura memoria.
Ebbene, a ben pensarci, la dimensione del ‘fine vita’ attiene anche a un’ampia casistica assai diversa da quella ordinariamente immaginata da chi, a vario titolo, si cimenta con i progetti di legge in materia.
Ci riferiamo alla ‘malasorte’ infernale di coloro i quali si trovino, all’improvviso, catapultati in una circostanza connotata dalla incombente prospettiva del decesso. E ciò senza neppure poter usufruire di un tempo sufficiente a realizzare l’enormità della tragedia occorsa e a metabolizzarne le irreversibili conseguenze. Ci riferiamo a persone deprivate della possibilità di familiarizzare con il ‘dramma’ per eccellenza. E anche di comprenderne il senso a causa della dipartita violenta dal ‘mondo della vita’ (come lo definiva il filosofo Edmund Husserl) e dalla consolazione degli affetti più cari.
Proprio di un episodio consimile si è trovata ad occuparsi la sentenza di cui trattasi; un avvenimento tutt’altro che raro, pertinente a quell’ampia casistica di sinistri stradali letali in cui la morte della vittima non interviene ex abrupto – in un attimo, per così dire -, bensì matura con uno strascico. Una ‘coda’ magari ridottissima, nella sua estensione cronologica, ma pur sempre gravida di orrore per chi la deve affrontare con l’autocoscienza e la consapevolezza dell’exitus incipiente.
Detto altrimenti: chi sopravvive per poche ore, o anche soltanto per qualche diecina di minuti, a un impatto esiziale ha diritto ad essere risarcito per quel tormentoso commiato? Il quesito è a maggior ragione legittimo laddove il congedo sia stato dalla vittima vissuto con parte dei propri sensi ricettivi e percepito con l’atterrita vigilanza di una coscienza intatta, o perlomeno in grado di captare la gravità del contesto.
Da un punto di vista squisitamente legale non vi sarebbero ostacoli a consentire l’ingresso di tale voce di danno tra quelle meritevoli di risarcimento visto che il connesso diritto si cristallizzerebbe nel patrimonio di un soggetto ancor vivo (e quindi munito di piena capacità giuridica) per poi, all’atto del di lui decesso, transitare iure hereditario nella sfera degli eredi. Insomma, non stiamo parlando del cosiddetto danno da ‘perdita della vita’ concretantesi nella privazione dell’esistenza in quanto tale. A tal proposito, come noto, dopo una fulminea – quanto fugace negli effetti – sentenza della Suprema Corte del 2014 (che aveva acceso le speranze di molte persone incorse in eventi luttuosi) le Sezioni Unite hanno definitivamente espunto dalla gamma dei danni ristorabili quello integrato dalla perdita violenta e istantanea della vita.
Qui si parla d’altro: nell’ipotesi che ci occupa il soggetto era deceduto non immediatamente, ma a distanza di circa mezz’ora dal tragico impatto e vi era la prova in atti che, in quell’esiguo lasso temporale, la vittima aveva palesato, attraverso reiterati lamenti, di avere contezza del proprio stato terminale.
Ebbene, la Cassazione ha detto no per due ordini di ragioni: in primis, perché la prova di una condizione agonica accompagnata da invocazioni di aiuto non sarebbe risolutiva rispetto alla dimostrazione della effettiva presa di coscienza del danneggiato; in secundis, perché, nella fattispecie, non sarebbe intercorso un intervallo temporale apprezzabile e tale da configurare delle “utilità perse e da reintegrare”.
I giudici di legittimità hanno, quindi, concluso nel senso che la vicenda in esame potrebbe, al più, essere sussunta all’interno della categoria del danno da ‘perdita della vita’ o tanatologico (rispetto al quale però, come anzidetto, le Sezioni Unite si sono già negativamente e categoricamente pronunciate), ma non nella direzione di un danno catastrofale da lucida agonia.
Che dire? Prendiamo buona nota dell’arresto giurisprudenziale di cui sopra non potendoci astenere, però, dall’esprimere tutto il rammarico (condiviso, crediamo, da molti altri giuristi) per quella che può ben definirsi un’occasione perduta per riaffermare precetti ‘umanistici’ di incondizionato e – consentiteci di aggiungere – ‘sacro’ rispetto nei confronti della vita.
Non ci pare, infatti, ragionevolmente sostenibile né sul piano giuridico né su quello, superiore, dei principi meta-giuridici ispiratori del nostro ordinamento, l’approdo della Suprema Corte. Non può non essere ricondotta nell’alveo dell’ampia categoria dei danni non patrimoniali la spaventosa esperienza dell’assistere, impotenti e attoniti, alla consumazione inesorabile dei propri ultimi istanti. Quelli che separano una singola e irriducibile esistenza dall’inabissamento nell’oltre da tutti temuto: il più atroce (e purtroppo non emendabile) dei mali gravanti sui precari destini di ciascun essere umano.
Forse, una sentenza come questa può essere spiegata solo con lo smarrimento, a livello sia collettivo che individuale, della nostra capacità di ‘ragionare’ intorno al senso della vita e intorno a quello della morte, nonché intorno alla loro incommensurabile portata e alla loro insondabile vastità. Si tratta di un approccio filosofico? Sicuramente sì, ma non per questo ‘irricevibile’ sul piano delle norme positive e della loro interpretazione e applicazione. Eradicare la riflessione filosofica dall’orizzonte donde scaturiscono le regole giuridiche che noi stessi ci auto-imponiamo adduce a conseguenze come quella compendiata dalla massima in esame: lo spegnersi inatteso di una vita, per quanto consapevole, non ha alcun valore, neppure simbolico. Soprattutto quando si tratta della vita altrui.
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