Quando il danneggiato “cade in piedi”: ultime sentenze in tema di insidia stradale
Due sentenze del Tribunale di Torino, la n. 1304 del 09.03.17 e la n. 1742 del 30.03.17, hanno affrontato in rapida successione il tema, quanto mai attuale, dei danni fisici o materiali cagionati agli utenti della pubblica via dalle sconnessioni, buche, asperità che troppo spesso caratterizzano le strade italiane. In particolare, la pronuncia n. 1304 si è occupata delle lesioni permanenti riportate da una signora la quale transitava su un attraversamento pedonale, mentre la n. 1742 ha affrontato il sinistro concretatosi nella rottura degli pneumatici anteriori e posteriori di un autoveicolo. Nel primo caso, la vittima era inciampata in una ‘nicchia’ venutasi a creare tra due lastre di pietra in prossimità delle strisce zebrate. Nel secondo caso, invece, il malcapitato automobilista era finito, con le quattro ruote del proprio mezzo, dentro due voragini parallele site a cavallo della corsia di percorrenza.
Prima di dar conto degli aspetti salienti e autenticamente innovativi dei verdetti in questione, è opportuno richiamare gli orientamenti giurisprudenziali nella materia di cui trattasi. In un primo momento, e per un lunghissimo periodo, i giudici italiani di merito e di legittimità si sono assestati – nel decidere fatti illeciti come quelli in esame – sulla “linea del Piave” dell’art. 2043 c.c. In sintesi: responsabilità aquiliana in capo agli enti proprietari dei tratti di strada ove avveniva il sinistro esvlusivamente nel caso in cui il danneggiato fosse stato in grado di dimostrare non soltanto il fatto storico, ma anche la colpa degli enti pubblici. E tale colpa era integrata dalla contemporanea ricorrenza di due requisiti: la invisibilità e la imprevedibilità dell’ostacolo in cui fosse incorso l’utente della sede viaria. Con il risultato paradossale che venivano respinte, nelle aule di giustizia, domande di risarcimento anche molto ingenti pure in ipotesi di eclatante, se non vergognoso, stato manutentivo del sedime stradale. Infatti, quanto più la buca ‘galeotta’ era grande (e quindi visibile), nonché magari sita addirittura in un contesto butterato da altre deformazioni similari, tanto più era difficile che la vittima potesse ottenere soddisfazione alle proprie pretese proprio per la solare visibilità e logica prevedibilità dell’ostacolo.
Successivamente, l’indirizzo della Corte di Cassazione è mutato in senso favorevole ai danneggiati: la norma entro la quale sussumere le fattispecie in questione è diventata l’art. 2051 c.c. che prevede una ‘presunzione di responsabilità’ in capo al titolare/custode di un bene salvo la possibilità, per il medesimo, di fornire la prova contraria del caso fortuito. È del tutto evidente che l’applicazione di tale disciplina anche agli enti pubblici ha agevolato enormemente il compito degli avvocati incaricati di patrocinare i diritti e gli interessi delle vittime di cadute causate dalle pessime condizioni della carreggiata. Infatti, è sufficiente, per i medesimi, limitarsi a dimostrare il fatto storico senza doversi sobbarcare – come in passato – l’onere di fornire la probatio diabolica della ‘invisibilità’ e ‘imprevedibilità’ del trabocchetto.
Un tanto premesso, veniamo ora all’aspetto più interessante che connota entrambe le sentenze del tribunale del capoluogo piemontese. In tutti e due i casi, nel corso della vicenda processuale, non era stata fornita la prova evidente e immediata (tramite l’escussione di testimoni oculari) dell’accadimento: nessuno aveva visto la macchina finire con le ruote nei due ‘crateri’ e neppure aveva visto il pedone posare il piede sulla spaccatura ingeneratosi tra le lastre dell’attraversamento pedonale. Tuttavia, i giudici hanno ritenuto comunque sussistente la prova del fatto storico mercé l’utilizzo di uno strumento spesso sottovalutato dagli operatori del settore. Ci riferiamo alla ‘presunzione’ consistente, come noto, nella possibilità di desumere – in ambito istruttorio – un fatto ignoto da uno noto.
Declinato nei casi concreti di cui si sono trovate a occuparsi le toghe torinesi, questo significa che gli elementi in atti (rinvenimento del veicolo e della vittima nell’immediata vicinanza delle buche, tempestivo intervento delle autorità, verbalizzazione – da parte di esse – dello stato dei luoghi corredata da materiale fotografico, esistenza di testimoni precipitatisi a soccorrere la vittima dopo l’evento) sono state ritenute sufficienti a dimostrare, con elevato grado probabilità, che la rottura degli pneumatici, in un caso, e la lesione fisica nell’altro, erano state determinate dal ‘contributo’ (decisivo sul piano eziologico) delle buche presenti sulla strada.
La sentenza n. 1304 così motiva tale scelta: “L’accoglimento della domanda può invero, in caso come quello in esame, fondarsi sulla ricostruzione del fatto operata in via presuntiva, perché in presenza di circostanze oggettive precise, e tra loro concordanti. Né occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità; è sufficiente, cioè, anche per la presente vicenda storica, che il rapporto di dipendenza logica tra il fatto noto e quello ignoto sia accertato alla stregua di probabilità, con riferimento ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti, la cui sequenza e ricorrenza possano verificarsi secondo regole di esperienza (in argomento, si veda Cass. Sez. I, n. 16993 del 01/08/2007)”.
Clicca qui per scaricare l’articolo in formato stampabile PDF
Torna Indietro