Repetita iuvant: sì al danno patrimoniale per la casalinga macrolesa
Una sentenza della Corte di Cassazione, la nr. 27850/17 depositata il 14.11.17, riporta alla ribalta una problematica con cui spesso si devono cimentare i patrocinatori delle vittime di casi di responsabilità civile connessa soprattutto (ma non necessariamente) alla circolazione dei veicoli o alla malpractice medico-legale. Ci riferiamo a quella peculiare dimensione della invalidità permanente di un soggetto leso che si declina non solo (o non tanto) sul piano della compromissione dell’integrità psicofisica (danno biologico), quanto piuttosto (o anche) sul piano della capacità del soggetto di attendere ad una determinata occupazione produttiva di reddito. Trattasi, in definitiva, del tema del danno patrimoniale da lucro cessante connesso ad una deminutio della validità psicofisica di un soggetto.
Nel caso che ci occupa, la vicenda si era conclusa con una sentenza della Corte d’Appello di Bologna la quale, pronunciandosi a sua volta sull’impugnazione di un “verdetto” del Tribunale di Ravenna, aveva riconosciuto all’attrice il diritto al risarcimento del danno patrimoniale per una invalidità permanente del 25%, ma aveva escluso qualsivoglia incidenza sul piano patrimoniale. E ciò sulla base dell’assunto che l’attrice medesima non aveva dato prova di svolgere un‘attività lavorativa generatrice di apprezzabili guadagni, ma si era limitata a dedurre la propria condizione di casalinga; nonché, conseguentemente, a lamentare un aggravio delle proprie energie “di riserva” nell’espletamento delle mansioni collegate alla quotidiana attività domestica.
La Suprema Corte ha censurato la pronuncia dei giudici felsinei affermando che la circostanza dello stato di sostanziale inoccupazione dell’attrice non autorizzava, per ciò stesso, ad escludere la sussistenza, in capo alla stessa, di un danno patrimoniale futuro.
In particolare, i giudici di legittimità hanno sottolineato come una invalidità grave (nella fattispecie, come anzidetto, il 25%) è tale da non permettere alla vittima di svolgere attività “confacenti alle sue attitudini e condizioni personali e ambientali”. Il che integra non solo un danno biologico, ma anche un danno patrimoniale qualificabile come danno da “perdita di chances” da tenere rigorosamente distinto rispetto a quello consistente nella compromissione della incapacità lavorativa specifica.
Infatti trattasi, piuttosto, di una riduzione della capacità lavorativa generica che necessariamente è destinata ad impattare – stante l’elevata percentuale di invalidità – anche sul piano squisitamente patrimoniale e, in modo particolare, sul reddito futuro della vittima.
In tali casi, i giudici dovranno senz’altro stimare il danno secondo criteri presuntivi allorquando possa ritenersi ragionevolmente probabile che, per l’avvenire, il danneggiato percepirà “un reddito inferiore a quello che avrebbe altrimenti conseguito in assenza dell’infortunio” (cfr. anche Cass. 14.11.13 n. 25634).
Più precisamente – evidenzia la Corte – non era corretto escludere il danno patrimoniale sol perché la parte istante, nel momento del sinistro, era inoccupata e non svolgeva una qualsivoglia attività (se non quella di casalinga) che fosse riconducibile al suo grado di preparazione scolastica e di abilitazione professionale (nel caso de quo, trattavasi di geometra in predicato di sostenere l’esame per l’iscrizione al relativo albo).
In conclusione, possiamo affermare che la prefata sentenza si inserisce in un (apprezzabile) contesto di evoluzione giurisprudenziale tendente a valorizzare sempre più l’aspetto patrimoniale del danno in un periodo storico in cui, invece (e purtroppo), il danno non patrimoniale subisce continue e ingiustificati “degradazioni”.
Avv. Francesco Carraro – www.avvocatocarraro.it
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