La Cassazione torna sul tema del nesso causale in ambito di malpractice

La Cassazione è tornata sul tema del nesso di causa nell’ambito della responsabilità professionale medica con la sentenza nr. 8.461 del 27.03.19. Si trattava di un caso in cui i ricorrenti avevano impugnato una pronuncia della Corte d’Appello di Genova che aveva solo parzialmente accolto la domanda (dei prossimi congiunti di una vittima primaria) di risarcimento per danni subiti iure proprio e iure hereditario a causa di decesso della paziente per ritardata diagnosi di carcinoma mammario.

In particolare, il caso concerneva una signora alla quale era stato diagnosticata la presenza di masse tumorali benigne al seno nel gennaio 2003 e che, nel successivo mese di ottobre, aveva invece scoperto (grazie a un esame istologico) la natura maligna e aggressiva della patologia, tale da rendere necessaria una asportazione totale della mammella e conseguenti cure chemioterapiche.

La Corte di Cassazione, in primo luogo, ribadisce la linea adottata con la pronuncia nr. 576 del 2008 secondo la quale, in ambito di malpractice, il nesso causale è disciplinato dalla ratio elicitabile dagli  artt. 40 e 41 del codice penale temperata dal criterio della cosiddetta “causalità adeguata”: un evento può considerarsi causato da un altro se esso non si sarebbe verificato in assenza del precedente. Tuttavia, all’interno della serie causale, occorre dare rilievo solo a quegli accadimenti prodromici (rispetto a quello analizzato) che non appaiono, ad una valutazione ex ante, del tutto inverosimili.

Va, peraltro, rammentato che la valutazione eziologica in materia civile deve essere illuminata e orientata dalla cosiddetta regola della “preponderanza dell’evidenza”.

Pertanto, se il giudice appura una omissione di attività professionale in capo a un medico, egli può ritenere, in assenza di fattori esplicativi alternativi, che l’omissione sia stata la causa dell’evento lesivo e che, per converso, la condotta doverosa, ove tenuta, avrebbe impedito il verificarsi dell’evento (Cass. nr. 16123 /2010, nr. 12686/2011 e nr. 6698/2018).

Non si dimentichi che “anticipare il decesso di una persona già destinata a morire perchè afflitta da una patologia costituisce pur sempre una condotta legata da nesso di causalità rispetto all’evento morte e obbliga chi l’ha tenuta al risarcimento del danno” (Cass. 20996/2012).

Gli Ermellini hanno censurato la sentenza di secondo grado in quanto essa non ha tenuto presente che la prognosi della signora, al momento della mancata diagnosi del gennaio 2003, prevedeva una probabilità di vita a 10 anni compresa tra il 75 e l’85% e un rischio di morte compreso tra il 7 e il 13%.

In definitiva, la Corte così riassume il contenuto della propria decisione: “è configurabile il nesso causale tra il comportamento omissivo del medico ed il pregiudizio subito dal paziente qualora attraverso un criterio necessariamente probabilistico, si ritenga che l’opera del medico, se correttamente e prontamente prestata, avrebbe avuto serie ed apprezzabili possibilità di evitare il danno verificatosi: laddove il danno dedotto sia costituito anche dall’evento morte sopraggiunto in corso di causa ed oggetto della domanda in quanto riconducibile al medesimo illecito, il giudice di merito, dopo aver provveduto alla esatta individuazione del petitum, dovrà applicare la regola della preponderanza dell’evidenza o del ‘più probabile che non’ al nesso di causalità fra la condotta del medico e tutte le conseguenze dannose che da essa sono scaturite”.

Inoltre, “ove la decisione del giudice sia fondata sulle risultanze di una CTU, l’accertamento tecnico svolto deve essere valutato nel suo complesso, tenendo conto anche dei chiarimenti integrativi prestati sui rilievi dei consulenti di parte: il mancato e completo esame delle risultanze della CTU integra un vizio della sentenza che può essere fatto valere, nel giudizio di Cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, risolvendosi nell’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”.

Avv. Francesco Carraro

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Nesso di causa e perdita di chances in ambito di malpractice

Il Tribunale di Ferrara, con sentenza del 18.06.2018, ha affrontato un caso di responsabilità professionale medica alla luce della riforma Gelli-Bianco entrata in vigore nell’aprile dello scorso anno.

Per quanto concerne il profilo e la natura della responsabilità sanitaria, il giudice ferrarese ha rammentato come, proprio in base alla novella costituita dalla legge 24/2017,  le strutture sanitarie continuano a rispondere a titolo di responsabilità contrattuale dei danni provocati dal personale delle strutture (ex art. 1118  e 1228 del c.c.), mentre i sanitari rispondono a titolo di responsabilità extracontrattuale (e cioè ex art. 2043 c.c.) salvo che questi ultimi abbiano agito nell’adempimento di un obbligo direttamente assunto con il paziente.

Il tribunale, poi, ha ricordato la differenza, in termini di onus probandi, tra giudizio penale e giudizio civile: nel primo caso vale il criterio dell’accertamento oltre ogni ragionevole dubbio mentre nel secondo quello della preponderanza dell’evidenza, altrimenti definito del “più probabile che non”.

Quanto agli oneri, sul piano delle allegazioni e delle prove,  incombenti sulla parte attrice, essi sono sostanzialmente tre: 1) provare la sussistenza dell’obbligazione contrattuale; 2) provare la sussistenza di un deterioramento o di una compromissione definitiva della salute del paziente; 3) allegare la sussistenza di un inadempimento qualificato e cioè astrattamente idoneo a provocare il danno.

Il caso in questione riguardava una ritardata diagnosi che conduceva solo con grave ritardo alla individuazione di una neoplasia nel giunto retto-sigma (in stato avanzato) tale da portare poi al decesso del malato.

La tardiva diagnosi determinava, oltre all’aumento e alla diffusione della malattia, anche l’impossibilità, per il paziente, di sottoporsi al corretto iter terapeutico-chemioterapico con conseguente significativa riduzione delle chances di sopravvivenza e di guarigione. Altrimenti detto, secondo il CTU il corretto inquadramento diagnostico avrebbe consentito di trattare la malattia più precocemente mentre il soggetto si trovava in condizioni non compromesse e quindi più propizie a reagire positivamente ai trattamenti.

Il CTU concludeva per la perdita di chances di sopravvivenza intorno al 40 per cento. Insomma, il ritardo diagnostico non aveva determinato la morte del paziente ma aveva, piuttosto, influito sulla prognosi.

A questo punto, il giudice si rifà all’orientamento consolidato della giurisprudenza, secondo cui la perdita di chances di guarigione consiste non tanto nel venire meno della certezza o della probabilità di guarire, quanto piuttosto nella perdita della mera possibilità di guarire (ovvero di guarire con postumi minori rispetto a quelli effettivamente patiti).

La domanda di perdita chances costituisce una richiesta specifica che deve essere espressamente formulata e non può considerarsi inclusa di default nella generica richiesta di condanna avversaria al risarcimento di tutti i danni causati dalla morte del paziente. Secondo il Tribunale di Ferrara, tale richiesta deve considerarsi compresa nel petitum attoreo giacchè, nel caso specifico, il patrocinio degli attori aveva domandato il risarcimento di tutti i danni da “anticipato decesso”. In quel lemma (“anticipato”) deve reputarsi compresa anche la perdita di chances. Inoltre, nella narrativa del fatto, era stata allegata la circostanza che l’avanzato stato di malattia aveva comportato la necessità di una terapia chirurgica più aggressiva.

In definitiva, in cosa consiste il danno da perdita di chance di guarigione? Potremmo cosi definirlo,  prendendo in prestito le parole della sentenza in commento: quel danno che ricorre quando “non è possibile stabilire quale beneficio avrebbero potuto arrecare al paziente le cure omesse”  e che dà il diritto al paziente di essere risarcito per il solo fatto di aver perduto la possibilità (chance) di guarire o sopravvivere. Ciò che conta, quindi, non è la perdita del risultato (anche perché nessuno può dire se, con le cure omesse, il soggetto sarebbe guarito o sarebbe, per lo meno, vissuto per un lasso di tempo più lungo. Conta soltanto che il soggetto ha perduto quella possibilità, a prescindere dal grado di probabilità del verificarsi dell’esito più favorevole. Secondo la Cassazione, è però necessario che tale possibilità abbia i caratteri della apprezzabilità, della serietà e della consistenza. L’eventuale valore statistico percentuale ha solo una valenza orientativa rispetto alla irripetibile specificità di ogni singolo caso (Cass. 5641 del 9.3.18).

Dunque, i punti da considerare sono due e due sono anche gli step del ragionamento cui l’interprete è tenuto.

Prima bisogna chiedersi se sussiste il nesso causale, civilisticamente parlando, applicando il criterio della preponderanza dell’evidenza. Nel caso qui trattato, il nesso esiste perché l’errore medico ha comportato (più probabilmente che non) la perdita della (mera) possibilità di una vita più lunga.

Il secondo step riguarda proprio la liquidazione di questa “possibilità”. Concerne, pertanto, il profilo della causalità giuridica (rapporto tra evento e sue conseguenze dannose sul piano patrimoniale e non patrimoniale) e non invece la causalità materiale (rapporto tra condotta ed evento).

La liquidazione del danno da perdita di chances deve essere fatta in via equitativa, mercè il ricorso alle tabelle milanesi. Per il Tribunale di Ferrara, si deve operare come segue: si calcola il risarcimento che si sarebbe liquidato (all’attore) se egli fosse sopravvissuto con una invalidità del 100 per cento e poi lo si riduce in misura corrispondente alla percentuale di possibilità di sopravvivenza perduta; quindi, una volta ottenuta la somma pari a una invalidità del 100 per cento la si divide per il numero di anni della vittima e la si moltiplica per il numero di anni in cui si concreta la supposta possibilità di sopravvivenza.

Nel caso di specie, l’importo pari al 100 per cento corrispondeva ad euro 762.097,00, cifra che, divisa per il numero degli anni della vittima, restituiva una somma di euro 9.897,00 che, a sua volta, moltiplicata per il numero di anni quattro (proiezione della possibilità di sopravvivenza dell’attrice, considerata la sua anzianità, alla stregua dei dati sulla mortalità femminile rilevati dall’ISTAT) dava un importo di 39.588,00 euro. Su tale somma è stata calcolata la percentuale del 40 per cento di possibilità di sopravvivenza perduta. Ne discende che l’importo dovuto per la diminuzione della possibilità di sopravvivenza è risultato pari a euro 15.836,00.

È  stato, invece, negato il risarcimento da perdita di rapporto parentale perché non è emersa, in corso di causa, la prova della sussistenza di un nesso causale diretto tra l’omissione diagnostica e la morte. A nostro modesto avviso, ci sarebbe stato tuttavia lo spazio per riconoscere quantomeno il danno da compromissione, proprio in termini di chances,  del rapporto parentale. Infatti, i prossimi congiunti si sono visti privare della (seppur solo ‘mera’) possibilità di proseguire nella loro relazione con il parente poi deceduto. Non si vede, in altri termini, perché il concetto di chance debba valere per le vittime primarie e non per quelle secondarie.

Avv. Francesco Carraro

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