Un po’ di chiarezza, vi prego, sulle infezioni nosocomiali

Parliamo di infezioni nosocomiali e l’occasione ci è offerta da una sentenza del Tribunale di Roma del 27.9.2018, con la quale il giudice capitolino si è soffermato su una delle piaghe più diffuse in ambito di malpractice sanitaria. Ci riferiamo, per l’appunto, al tema delle infezioni ospedaliere che costituiscono uno dei più paradossali risvolti di quel ‘buco nero’ del sistema sanitario nazionale che risponde al nome di malasanità. Nonostante possa sembrare assurdo, l’ospedale è uno dei luoghi in cui è più facile e frequente contrarre patologie per effetto dell’attacco di germi e batteri.

Ciò accade sia perché la popolazione di un nosocomio è costituita, per la gran parte, da soggetti (i pazienti) il cui organismo è già debilitato, a volte pesantemente, da un pregresso stato morboso sia perché gli ambienti ospedalieri pullulano di agenti patogeni multi-resistenti. Ci riferiamo a virus e batteri forieri di una formidabile capacità di rendersi inattingibili alle contromisure di carattere profilattico ed antibiotico.
Il pregio della sentenza in commento consiste nell’aver correttamente applicato, alla questione delle infezioni nosocomiali, un principio cardine dell’onus probandi in ambito di RC-medica.

Più in particolare, il Tribunale romano ha rammentato come la presunzione di responsabilità di natura contrattuale (sussistente a carico delle strutture sanitarie e normativamente ‘consacrata’ dalla legge Gelli-Bianco del 2017) comporta che – di fronte a una conclamata infezione – l’azienda ospedaliera deve essere ritenuta responsabile salvo che dimostri la ricorrenza, nella fattispecie, di quell’evento di carattere straordinario ed eccezionale in grado di superare la presunzione di colpa di cui all’art. 1218 del c.c.

Ovviamente, tale prova non può consistere solo nella dimostrazione di avere somministrato al paziente misure di carattere profilattico coerenti con le linee guida e i protocolli più accreditati. È anche, e soprattutto, necessario che l’azienda convenuta in giudizio dimostri di aver posto in essere tutti quei presidi connessi con una adeguata sanificazione ambientale propedeutica a minimizzare, se non azzerare del tutto, i rischi di contagio.

Teniamo presente che la contrazione di un agente infettivo è una delle complicanze maggiormente prevedibili, benchè non facilmente prevenibili, nell’espletamento del servizio di assistenza ospedaliera. Sarà dunque ben difficile che la struttura sanitaria riesca a fornire la probatio diabolica di cui trattasi. Il che non deve essere letto come un accanimento ingiustificato nei confronti del sistema sanitario quanto piuttosto come un invito alla massima sollecitudine e diligenza nell’approntare le elementari accortezze in grado di salvaguardare la salute, o addirittura di salvare la vita, di migliaia di persone.

Spesso, in consimili casi, giudici e medici legali dimenticano un aspetto dirimente, concentrandosi solo sulla somministrazione antibiotica e non sulle condizioni generali dell’ambiente in cui l’intervento è avvenuto: anche ammesso che la profilassi pre e post-operatoria sul paziente sia stata positivamente effettuata (il che non esclude comunque in toto il rischio di infezioni), le convenute strutture sanitarie devono sempre – se non prima di tutto – dimostrare di aver fatto tutto quanto competeva loro onde garantire la salubrità e l’igienizzazione dei luoghi, sia prima che durante che dopo l’intervento. Laddove questa prova manchi – e siano stati invece soddisfatti gli oneri probatori incombenti sull’attore – deve seguire necessariamente la condanna.

Avv. Francesco Carraro

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