Via libera delle Sezioni Unite ai ‘danni punitivi’

Finalmente, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno emesso l’attesa sentenza in materia di “danni punitivi”. Con pronuncia 16.601/17depositata il 05.07.17, i giudici di legittimità si sono espressi in ordine al “diritto di cittadinanza” – all’interno del nostro ordinamento – dei cosiddetti punitive damages.

La vertenza concerneva tre sentenze, pronunciate negli Stati Uniti, con le quali le corti americane avevano condannato una società italiana produttrice di caschi a pagare complessivamente circa un milione e mezzo di dollari a favore dell’azienda rivenditrice del casco. Quest’ultima (attrice in manleva) a sua volta aveva indennizzato un motociclista (infortunatosi durante una gara di motocross) in seguito a una intervenuta transazione con quest’ultimo.

La società ricorrente si doleva – tra le altre cose – del fatto che la Corte d’Appello di Venezia (che aveva dichiarato efficaci ed esecutive le tre sentenze di cui sopra) non avesse ritenuto contrari all’ordine pubblico i prefati verdetti, con conseguente violazione dell’art. 64 della legge 218 del ’95.

La Corte veneziana, nella prospettazione dell’istante, non si era accorta che le sentenze delle corti d’oltremare riguardavano un indennizzo corrisposto anche a titolo di “danno punitivo”.

In verità, il giudice di secondo grado si era pronunciato pure su questo aspetto osservando che le pronunce (di cui si chiedeva la declaratoria di efficacia nel nostro paese) non avevano assolutamente specificato a che titolo fossero state corrisposte le somme. Infatti, i giudici statunitensi si erano limitati a “recepire” (senza dettagliarlo e qualificarlo) l’importo concordato dalle parti con una precedente transazione.

Orbene, le SS.UU osservano, preliminarmente, che l’importo liquidato è di dimensione “non abnorme” (soprattutto se confrontato con l’originaria domanda stimata – davanti alla giuria della Florida – in una somma oscillante dai 10 ai 30 milioni di dollari). Proprio la mancanza del requisito dell’abnormità deve far ritenere che non sia configurabile un carattere “punitivo” in capo alle sentenze in oggetto.

La Cassazione ha colto la palla al balzo per fare un punto sulla vexata quaestio della riconoscibilità delle sentenze straniere (soprattutto americane) fautrici di liquidazioni totalmente sproporzionate rispetto a quelle ordinariamente riconosciute nel nostro paese. Gli Ermellini hanno ricordato come la stessa Cassazione, nel 2007, aveva già respinto la richiesta delibazione di un verdetto “forestiero” contrassegnato dalla censurabile “cifra” della abnormità. Essa aveva statuito, altresì, l’estraneità, rispetto al sistema risarcitorio italiano, della “idea” di punizione e di sanzione nonché l’indifferenza – per il medesimo sistema e ai fini della entificazione del ristoro dovuto dal colpevole alla vittima – della condotta del danneggiante.

Secondo questo principio basilare, il nostro ordinamento risarcitorio ha un carattere monofunzionale atteso che la responsabilità civile ha la sola e unica funzione di “restaurare la sfera patrimoniale” del soggetto leso e non quella di “punire il colpevole”. Vero è che la prevalente dottrina ha criticato tale impostazione rifacendosi alle evidenti modifiche che il diritto vivente ha apportato ai canoni della responsabilità civile negli ultimi lustri. In proposito, le Sezioni Unite sono tranchant, evidenziando testualmente come l’impostazione tradizionale (censurata dalla dottrina) “sia superata e non possa più costituire, in questi termini, idoneo filtro per la valutazione di cui si discute”. Infatti, già nel 2015, le stesse Sezioni Unite avevano sottolineato come la funzione sanzionatoria del risarcimento del danno non dovesse più considerarsi “incompatibile a prescindere” con i principi generali del nostro ordinamento. E ciò in ragione delle plurime innovazioni apportate, in subjecta materia, dal legislatore, mercé l’introduzione di “disposizioni volte a dare un connotato lato sensu sanzionatorio al risarcimento”.

Quindi, può ben dirsi che – accanto alla preponderante e primaria funzione compensativa-riparatoria della responsabilità civile – è emersa una sua “natura polifunzionale” proiettata verso dimensioni eterogenee all’interno delle quali va inserita certamente quella preventiva-deterrente-dissuasiva e quella sanzionatorio-punitiva.

La Corte stila, poi, un interessante elenco di tutte le aree giuridiche disciplinate da norme che contengono misure qualificabili come “sanzionatorie in ambito risarcitorio”: dalla materia dei marchi e brevetti a quella del codice del consumo a quelle in materia di affidamento della prole allo statuto dei lavoratori alla locazione. Lo stesso art. 96 del codice di procedura civile è stato “letto” dalla Corte Costituzionale, con sentenza 152 del 2016, come un istituto dalla natura non esclusivamente risarcitoria ma anche, se non più propriamente, sanzionatoria.

Nel prosieguo della parte motiva della sentenza in commento, la Corte ha comunque modo di segnalare che non bisogna forzare i termini della questione: il fatto che l’istituto aquiliano abbia conosciuto una “deriva”, sia pure non marcata, in senso deterrente-sanzionatorio non deve consentire ai giudici italiani di imprimere “soggettive accentuazioni ai risarcimenti liquidati”.

È proprio questo il punto cardine dalla pronuncia delle Sezioni Unite: non è possibile né lecito consentire l’ingresso, nella nostra costellazione normativa, a sentenze che liquidino somme di denaro con funzione anche punitiva se non in presenza di una “intermediazione legislativa” e cioè di una specifica previsione positivamente stabilita dal diritto vigente.

Altra precisazione importante concerne il concetto di ordine pubblico: quando si parla di “ordine pubblico” e “compatibilità” con il medesimo delle sentenze straniere di condanna per punitive damages bisogna considerare che tale concetto ha subito, nel tempo, una significativa evoluzione.

Esso non può più qualificarsi come “complesso dei principi fondamentali connotanti la struttura etico sociale della comunità nazionale in un determinato periodo storico”. Piuttosto, andrà definito come un coacervo di tutele approntate a livello sovraordinato rispetto a quello della legislazione primaria e riferibile non più solo alla Costituzione italiana ma anche al Trattato di Lisbona, alle garanzie approntate dalla Carta di Nizza e agli altri trattati fondativi dell’Unione Europea.

Ergo, il parametro decisivo dovrà essere il confronto tra l’istituto non regolato dall’ordinamento nazionale (nell’ipotesi di specie, evidentemente, i famosi danni punitivi) e la disciplina europea, ma anche tra il medesimo istituto, da un lato, e la nostra carta fondamentale (e le leggi che ne “inverano l’ordinamento costituzionale”) dall’altro.

Secondo le Sezioni Unite, le costituzioni e le tradizioni giuridiche nazionali rappresentano, per fortuna, un limite ancora vivo. Da questo punto di vista, la domanda che il giudice di merito deve porsi – nel momento in cui si trova a decidere se “vidimare” o meno un verdetto liquidante danni punitivi – è la seguente: l’istituto giuridico extra-nazionale su cui si fonda la pronuncia straniera è o non è in aperta contraddizione con l’intreccio di valori e norme che costituiscono l’architrave dell’ordine pubblico nazionale come sopra inteso? La risposta, in linea di massima, è che i danni punitivi non possono essere esclusi “a prescindere” purché ricorra una ben precisa condizione: e cioè che, nell’ordinamento straniero (sul “ceppo” del quale è spuntato il “ramo” della sentenza “punitiva”), vi sia un ancoraggio normativo solido e indiscutibile atto a giustificare la liquidazione di punitive damages.

In buona sostanza, la condanna straniera a risarcimenti punitivi deve provenire da una fonte normativa “riconoscibile” nella misura in cui il giudice a quo “abbia pronunciato sulla scorta di basi normative adeguate” rispondenti a principi di tipicità e prevedibilità non contrastanti con l’ordinamento italiano. Tali pronunce, quindi, dovranno recare una precisa ed evidente “perimetrazione” in termini di tipicità e puntualizzazione dei limiti quantitativi delle condanne erogabili.

Ciò affinché non sia tradito il principio cardine della proporzionalità del retto risarcimento e quindi della proporzionalità tra il suo segmento riparatorio-compensativo e il suo segmento sanzionatorio-punitivo.

Si consideri a tal proposito che – negli stessi Stati Uniti – sono ormai banditi dalla stragrande maggioranza delle corti i danni cosiddetti grossly excessive (grossolanamente eccessivi). Il rapporto “giusto” tra componente compensativa e componente punitiva è, secondo la Supreme Court U.S. del 25.06.08, di 1 a 1: se mi condanni a un milione di risarcimento compensativo, non potrai sanzionarmi per più di un milione a titolo punitivo.

Concludendo, possiamo ben dire che la tanto attesa pronuncia delle Sezioni Unite “sdogana”, sul piano dei principi generali, il concetto di “danni punitivi”, ma non arretra di un millimetro per quanto riguarda gli effetti “nocivi” (laddove grossolanamente eccessivi) che, in tema di quantificazione, l’applicazione di tali principi potrà portare. Per meglio dire, è difficile che la sentenza in commento possa rivoluzionare il panorama della responsabilità civile italiana e dei suoi parametri di riferimento come noto estremamente più contenuti rispetto a quelli vigenti e praticati negli USA.

Ci sia permesso un’ultima chiosa: c’è un aspetto della pronuncia de quo lodevole e meritevole di plauso e che, pure, non concerne l’argomento messo a tema dalla stessa Corte. Ci riferiamo al passaggio in cui i Giudici conferiscono alle nostre norme fondamentali (Costituzione et similia) una dignità pari a quella dei Trattati fondativi dell’Unione Europea.

In un periodo storico in cui viene fatto strame del concetto stesso di sovranità, di rappresentanza. democratica, di autonomia e indipendenza degli stati nazionali rispetto alla soverchiante e sovraordinata prepotenza di istituzioni opache e non legittimate dall’urna (come quelle europee), questa è una gran bella notizia.

Avv. Francesco Carraro – www.avvocatocarraro.it

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